L’APOCALISSE: nostalgia del futuro – 1^ parte
una Introduzione al libro dell’Apocalisse del biblista Antonio Nepi, esperto di Antico Testamento e appassionato della letteratura giovannea.
di Antonio Nepi
Oggi noi combattiamo contro un persecutore ingannevole, un nemico che lusinga. Non percuote il dorso, ma accarezza il ventre. Non ci confisca i beni per darci la vita, ma ci arricchisce per darci la morte, Non ci spinge verso la libertà gettandoci in prigione, ma verso la schiavitù onorandoci nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore. Non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro
(Ireneo di Lione – Contro Costanzo V).
- Un libro da dissigillare
A torto confinato nell’esilio della diffidenza, dell’ignoranza, della strumentalizzazione, finora timorosamente selezionato dalla lettura liturgica e dalla catechesi, il libro dell’Apocalisse è indubbiamente il libro più “profetico” nella polifonia della Scrittura, in quanto mira a richiamare la Chiesa di ogni tempo – nella sua poliedrica realtà universale e locale – al suo ineludibile compito di soggetto comunitario ermeneuta. Leggere il disegno di Dio sulla storia (il mysterion oggettivo), rimeditare e progettare la propria presenza (la sofia personale e comunitaria) in questa storia, è una necessità teologica (dolce e amara, come ogni esperienza profetica, cf. Ap 10,11!). Il “mistero” – come nel linguaggio paolino – non è un enigma: è qualcosa che è stato “taciuto”, nascosto, perché in un momento fissato (= la Pasqua di Gesù) fosse detto e svelato! Significativamente posto alla fine del canone biblico come “ricapitolazione” disponibile, il libro offre i paradigmi interpretativi che la comunità cristiana deve applicare, chiamata in ogni tempo alla fusione di orizzonti della Parola (Scrittura ed avvenimenti) e ad estrarre dal suo tesoro «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,51), sotto la guida dell’unico esegeta che è il Paraclito (Gv 14,25; 16,13).
- L’Apocalisse: liber novissimus
La collocazione dell’Apocalisse (= Rivelazione) come “ultimo” libro del NT è assoluta, diversamente da altri testi neotestamentari variamente posizionati nelle antiche liste canoniche del NT. Nell’unità strategica tra Primo e Secondo Testamento, l’Apocalisse diventa novissimus, l’“ultimo” libro di tutta la Bibbia cristiana e “chiude” tutta la storia di salvezza ivi narrata. Questo non si può attribuire ad una casualità, ma ad una deliberata “intelligenza spirituale” ecclesiale delle Scritture. Posto alla “fine”, si configura come deuterosi (P. Beauchamp), “ricapitolazione”. Se immaginiamo tutta la Scrittura (AT-NT) come un rotolo, una volta giunti alla fine del rotolo, lo si riavvolge per ritornare all’inizio e lo si consegna affinché un lettore o la comunità ecclesiale possa rileggerlo, riaprirlo. L’Apocalisse è rivelazione del grande rotolo (5,1) sigillato dai sette sigilli, scritto dentro e fuori (recto et verso, perché nessuno possa aggiungervi niente o falsificarlo); simboleggia il piano salvifico di Dio, che abbraccia l’inizio e la fine della storia della salvezza. Non è un caso che gli ultimi capitoli dell’Apocalisse (Ap 21) richiamino i primi della Genesi (cf. Gen 1–3), in una sorta di grande inclusione.
Ma l’Apocalisse rivela una mîse en abyme, il piccolo rotolo (10,2.8s) aperto, che significa il mistero del Vangelo, chiave pasquale che apre e permette di leggere il primo rotolo. Il paradigma centrale dell’AT, l’esodo, trova il suo compimento in quello centrale del NT che è l’esodo pasquale di Gesù. Pur non presentando nessuna citazione esplicita dell’AT, in realtà la Profezia del veggente di Patmos si configura come un mosaico di allusioni e reminiscenze. Tutto il passato e il presente vengono ricapitolati e rilanciati al futuro: la “rivelazione” della storia della salvezza diviene l’oggetto dell’“apocalisse” stessa.
Occorre però un passo ulteriore: quello della “digestione” (10,10) nell’oggi da parte dell’ascoltatore capace di assimilare la Parola della Scrittura e di ascoltare la Parola non scritta di Dio, che pur risuona nella storia (10,4). In questo senso l’Apocalisse è “rivelazione” (apokalypsis), nel doppio significato del termine: s-velamento del senso degli eventi della storia di salvezza, che trova nella Pasqua la chiave ermeneutica, ma nel contempo ri-velamento, un coprire di nuovo attraverso il simbolo, la realtà inaudita che Dio sta preparando nell’oggi. In questa “ricapitolazione” grazie allo Spirito il passato diventa garanzia del presente; il presente, che vive già il “fine” della Pasqua, trova la sua “patria” nel futuro della Pasqua definitiva. Ciò che Dio ha fatto, lo “sta facendo”; ma ciò che farà, sarà “nuovo”, oltre ciò che ha fatto, oltre la Scrittura. In questo senso l’Apocalisse è un libro “novissimus”, perché ci richiama alla sapienza di cogliere l’“ultimatività” creativa dell’agire di Dio nella nostra storia. Non a torto è stato definito “la madre di tutte le utopie moderne”.
- Contesto e linguaggio
Molto probabilmente il libro è il risultato di un’opera di fusione di tradizioni o scritti distinti, poi rieditate. Oggi non si pensa più a una cristianizzazione di un documento inizialmente giudaico. Per quanto riguarda le fonti, la principale resta l’AT (almeno 500 allusioni, reminiscenze, soprattutto i testi profetici di Ezechiele, Isaia, Geremia, Daniele e Salmi). Ma va considerata anche la liturgia, con i suoi inni, acclamazioni, azioni di grazie, lamentazioni. Resta il problema se l’autore finale abbia lavorato, rielaborando a livello intertestuale, su tradizioni scritte o orali. In questo ambito va tenuta presente la letteratura apocalittica: sia testi interni (Zc 9,14; Ez 38–39, con Gog e Magog) che extrabiblici (Henoch, 4Esdra, 2Baruc, le varie Apocalissi di Paolo, Giacomo, ecc.).
Dunque nella sua stesura finale il libro è stato redatto da un autore che si pone sulla scia del suo maestro Giovanni, l’apostolo. Diversamente dalla letteratura apocalittica giudaica, non si fa riferimento a un personaggio/autore del passato, ma del presente. Siamo alla fine del I secolo (probabilmente sotto Domiziano): il testo è redatti per cristiani della provincia romana dell’Asia Minore, crogiuolo effervescente di diverse tradizioni e produzioni culturali. Si tratta di un’epoca di “grande depressione” ideologica dominata da un senso lancinante (tykhē) dell’ineluttabilità degli avvenimenti, dall’incertezza del presente e da un’accesa sensualità sentimentale, che vede emergere l’individuo e i suoi desideri (B. Wildhaber). I cristiani sono una minoranza, facilmente confondibile con altre, in concorrenza con molteplici proposte religiose, spesso sincretistiche ed esoteriche (assai ricercate quelle dell’occulto e dell’astrologia): nuovi organismi che crescono sul cadavere dell’antica religione greco-romana.
L’annuncio di un crocifisso-risorto non era certo una carta vincente e convincente e registrava l’indifferenza, la diffidenza e il sarcasmo da parte del popolino e degli intellettuali, così pure la minaccia della forte ideologia totalitaria dei culti imperiali e della persecuzione romana. Benché questa situazione di persecuzione fosse plausibilmente meno virulenta (non sembra infatti che verso la fine del regno di Domiziano vi fosse una persecuzione in atto), l’Apocalisse la radicalizza, evidenziandone i rischi e mettendo in guardia i cristiani dalle tensioni che dovevano inevitabilmente aspettarsi (cf. la Prima lettera di Pietro). Il contesto è quello di una crisi di fede, di punti di riferimento che vengono meno e di inquietanti interrogativi su una storia “ufficiale” che sembra smentire le promesse di Dio e registrare fatalmente la vittoria del male.
Il linguaggio del libro è unico, perché forzatamente sgrammaticato, usato da chi conosce la lingua eppure ama straniarla, e dal codice simbolico che rischia di essere astruso per la nostra sensibilità moderna. Di fatto, il dato inedito del libro dell’Apocalisse sta nel presentare come costitutivo il linguaggio simbolico per esprimerne la teologia. In sintesi, i motivi possono essere tre: 1. la consapevolezza del narratore finale di esprimere una realtà trascendente, inafferrabile, per cui cerca suggestioni evocative; 2. il simbolismo sul momento destoricizza, ma resta disponibile a storicizzare ogni situazione analoga nel corso della storia (ad esempio, il lettore odierno è provocato a individuare la Bestia del proprio tempo); 3. la voluta interpellazione del destinatario, il lettore di ogni epoca, invitato a decrittare i simboli.
In linea con quello profetico dell’AT, il suo linguaggio ha connotazioni nuziali (che richiamano la comunità ai suoi impegni di sposa, cf. Ap 2,4; 22,7) e giudiziali (Dio “accusa” la comunità infedele; cf. Ap 2,4.14.20), così come troviamo la comunità fedele che, nell’oppressione, sporge querela, rinviando a Dio il ristabilimento della “giustizia” (Ap 6,10).
Nutrito e caleidoscopico è l’arsenale simbolico, che permette di mantenere disponibile il messaggio, non limitandolo alla contingenza storica. Il libro costruisce la sua trama teodrammatica mediante visioni, percezioni, e narrazioni. Oltre al “grande codice” delle profezie, questa folgorante lectio divina non esita a mediare il proprio annuncio, utilizzando moduli espressivi extrabiblici, finanche pagani (immagini mitologiche babilonesi, ellenistiche, romane ed asiatiche), per elaborare una nuova sintesi delle tradizioni culturali e religiose entro il quale il cristianesimo stava allignando ed allargare l’orizzonte in prospettiva ecumenica (Ap 7,9). «Tot habet sacramenta quot verba: parum dixi pro merito voluminis», scriveva san Girolamo nella sua Epistula 53,8. Lungi dall’esaurirsi storicamente, i simboli restano “aperti”, esigono la cooperazione ermeneutica della comunità leggente (cf. il ritornello «Chi ha orecchi ascolti», Ap 2,7.11, ecc.; o «ad avere sapienza», 13,19; 17,9), cioè di essere “svelati” ed applicati alla situazione personale ed ecclesiale di ogni tempo.
- Genere e Struttura
Il libro si autodefinisce «apocalisse» (= rivelazione) e «profezia» (1,1.3; 22,7. 10.18) e si configura come un grande dialogo liturgico, destinato alla proclamazione (1,3) nell’assemblea cristiana nel «giorno del Signore» (1,10). È una eucaristia e dossologia ottimista del mistero pasquale, dove, come esperienza prolettica della salvezza definitiva, la liturgia proclama coralmente il senso ultimo del tempo; la comunità viene invitata a fare memoria del passato salvifico di Dio, a vivere il presente come kairos dell’avvento del Regno di Dio nella grazia dello Spirito del Risorto e a rinnovare la speranza del compimento finale. Non dimentichiamo che, per la concezione biblica, il futuro viene da dietro. Questa sintesi di apocalittica e profezia va intesa non come oroscopo terroristico di catastrofe, ma come sforzo di leggere criticamente la storia alla luce della rivelazione divina e, nel contempo, un progettare il futuro secondo l’ottica di Dio. Secondo la felice definizione dell’esegeta francese Paul Beauchamp, «l’apocalittica permette di sopportare l’insopportabile». È una sorta di nuova evangelizzazione, in prospettiva di ottimismo e resistenza, di attesa e non di angoscia.
Il genere apocalittico era lo strumento conosciuto per consolare e ravvivare la speranza in momenti di forte crisi (attinge al libro di Daniele). A differenza però dell’apocalittica giudaica che annunciava come imminente l’intervento di Dio, per l’Apocalisse esso si è realizzato nel “già” della Pasqua di Gesù; è questa, paradossalmente, la vera “catastrofe”, cioè il “ribaltamento” della “nuova creazione” che Dio sta compiendo (Ap 21,5) e che la Chiesa deve discernere. L’Apocalisse non intende descrivere “la fine” della storia, bensì “il fine” della storia e in questo senso, pur usandone i moduli volutamente simbolici, è paradossalmente il testo meno apocalittico.
In filigrana questo dialogo liturgico si propone come un nuovo esodo: esodo interno ecclesiale (le 7 chiese devono uscire dal torpore e dalla tiepidezza, dalla visione orizzontale della carità, da interessi prettamente organizzativi, da una fede senz’anima…); esodo dalla ideologia dal sistema di valori che è di Babilonia. La grande insidia è la “sindrome di Stoccolma”, perché Babilonia seduce («Uscite, uscite da Babilonia»).
Questo dialogo liturgico, preceduto da un prologo (1,1-3) e chiuso da un epilogo (22,6-21), si dipana in due momenti:
- a) Ap 1–3: la Chiesa discerne sé stessa, come “abitazione” dove l’umanità incontra Dio.
- b) Ap 4–22: la Chiesa decifra nella storia la novità del mistero pasquale, chiamata ad una assimilazione al Risorto, cioè a divenire ciò che è e ad una coerente scelta di campo.
Nel prologo del libro l’autore annuncia la sua intenzione di «mostrare ciò che sta per succedere» (1,1); alla fine riprende la formula per sottolineare che l’impegno è stato rispettato (22,6). Precisa il senso delle sue parole: ciò che sta per succedere presto è la venuta di Gesù, di cui i credenti conoscono la presenza nascosta. Tra inizio e fine c’è il programma del libro: «Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo». Ciò che l’autore-profeta ha visto è la visione inaugurale del mistero del Risorto (Ap 1); ciò che è sono le lettere alle chiese (Ap 2–3); ciò che accade e accadrà è il messaggio stesso dell’Apocalisse (Ap 4–22).