Elenco delle conferenze del C.I.B.

1987 Struttura e significato della liturgia eucaristica secondo il Rito Bizantino G. Arletti

L’uomo pio e l’uomo ignorante

– La Pasqua d’Israele dalla morte alla vita

B. Salvarani

1987–1988 GESÙ, IL RABBI DI NAZARETH

1. P. Stefani L’Ebreo

È sempre più importante la riscoperta della piena ebraicità di Gesù, tanto che la “Commissione vaticana per il dialogo con l’ebraismo” ha sentenziato: “Gesù è ebreo e lo è per sempre”. Ma tale riscoperta non è facile né per i cristiani né per gli Ebrei, sia a causa di conflitti storici che per ragioni teologiche. Dunque il ritornare alla realtà ebraica di Gesù è una grande sfida per entrambi i gruppi. Eppure sarebbe un grande evento cristiano se fosse riconosciuto che la fedeltà di Gesù al popolo ebraico, la sua speranza ebraica e l’ardore con cui ha condiviso la sofferenza ebraica, per il cristiano possono far parte dell’imitazione del Cristo.

2. E. Bianchi Il Messia

[Dalla presentazione: “È una delle questioni che hanno maggiormente focalizzato l’interesse del relatore come credente e come studioso. Ci tratteggerà il punto di vista ebraico e quello cristiano, le preziose convergenze e le inevitabili discontinuità”]

3. E. Manicardi Il Crocifisso

All’evangelista Marco – più che la fatica e il dolore fisico e psicologico – della crocifissione interessa la realtà, ciò che è avvenuto davvero. Gesù muore alla presenza di Dio. Tuttavia tale presenza di Dio è segnata pure da una distanza: Dio è presente alla morte di Gesù, ma Gesù è solo, in quanto Dio non si rapporta a lui. Dio si rapporta a questa morte, poiché è l’evento che Egli ha voluto, ma non si rapporta più a Gesù. In quel momento Gesù è solo, perché deve morire. Tra presenza e distanza di Dio c’è squilibrio e Gesù soffre questa distanza: egli muore soffrendo. Tuttavia tale dolore non distrugge la sua fiducia. Gesù grida: «Dio mio, Dio mio», cioè prega ancora; il dolore non annulla la fiducia, che trova ancora posto. Però la fiducia non occupa tutto lo spazio del dolore: Gesù continua a soffrire e domanda: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

4. P. Lombardini La madre

Di Maria il Nuovo Testamento rivela poche notizie, dalle quali, tuttavia, scaturisce il ritratto di una donna vera: è una madre che fatica a capire la predicazione del figlio e che ha un carattere così forte da non subirne – a differenza delle folle – l’enorme fascino. Però Maria è anche una donna di grande fede: è sotto la croce dove, secondo l’evangelista Giovanni, dal figlio in croce riceve il battesimo e l’eucarestia, ossia l’acqua e il sangue che sgorgano dal costato di Gesù; è colei che sa ascoltare e rispondere: «Sono la schiava del Signore». Maria è la prima ascoltatrice dell’evangelo,

è la figura del credente a cui basta la Parola di Dio per entrare dentro quel nuovo ordine del mondo segnalato dal ribaltamento di tutte le cose, che ella celebra nel Magnificat.

1988–1989 SACRA SCRITTURA E TEOLOGIA DEI SACRAMENTI

1. D. Giannotti Battesimo, penitenza, Eucarestia: frutti dell’annuncio apostolico (At 2,36-48)

2. V. Grandi Sepolti nella morte, immersi nella vita (Rm 6,1-11)

3. G. Cova Mangiare e diventare il corpo di Cristo (1 Cor 11,17-34)

4. E. Manicardi Peccati rimessi e peccati trattenuti (Gv 20,19-23)

1990 UN DOCUMENTO DIMENTICATO

LA DEI VERBUM

[Seminario di studio:]

1. G. Di Maria Il capitolo III

2. C. Gasperi I capitoli I e II

3. L. Monari I capitoli IV, V e VI

[Conferenze:]

1. B. Calati Rivelazione e/o tradizione?

– Il capitolo II della “Dei Verbum”

Nell’enciclica “Dei Verbum” la Chiesa si comprende come “popolo di Dio” che si pone «in religioso ascolto della Parola» per poi proclamarla nel mondo. Questa trasmissione della divina rivelazione, che si effettua anche tra le generazioni (la “tradizione”) è opera dello Spirito Santo, che agisce in tutto il popolo di Dio nella comunione e che si esprime attraverso la successione ministeriale ordinata. La tradizione progredisce per l’assistenza dello Spirito Santo e così la chiesa cresce nella storia, in quanto la chiesa si fonda sul primato della Parola di Dio. Quando si legge la Parola di Dio, bisogna cercare sempre ciò che essa comunica a noi oggi. Infatti la tradizione è la Parola di Dio in compimento

nella storia.

2. R. Fabris Interpretazioni o interpretazione?

– Il capitolo III della “Dei Verbum”

Da sempre i cristiani discutono sul modo di interpretare la Scrittura, assumendo nei secoli soluzioni anche molto diverse

tra loro. Il principio fondamentale della “Dei Verbum” è che nella sacra Scrittura Dio «ha parlato per mezzo di uomini» (ossia li ha ritenuti autori degni, con la loro mentalità) e «alla maniera umana» (cioè tenendo conto dei modi di esprimersi caratteristici degli esseri umani, del loro tempo, della loro cultura). Una prima conseguenza è che l’interpretazione non è solo opera dell’esperto, bensì ognuno ha diritto di leggere la Bibbia e di interpretarla (poiché ogni lettura è interpretazione). Una seconda conseguenza è che non si accede direttamente alla Parola di Dio, bensì

bisogna capire cosa l’autore umano vuole dire. Per fare ciò, sono necessarie tre condizioni: 1. collocare ogni testo nel suo orizzonte completo; 2. tenere presente «la viva tradizione di tutta la Chiesa»; 3. confrontare il testo col contenuto essenziale della fede («l’analogia della fede»).

3. G. Bruni L’Antico e il Nuovo Testamento: opposizione, superamento, accordo?

– I capitoli IV e V della “Dei Verbum”

Alla domanda del titolo una risposta si impone: non vi è nessuna opposizione, unica è la vicenda; non vi è alcun superamento, se con tale termine si intende dichiarare “scaduto” o “sorpassato” l’AT, il quale invece continua a splendere di luce propria, dotato di senso e capace di dare senso. Tra di due Testamenti vi è un’indissolubile “unità-continuità”, che impedisce la loro separazione. Dunque vi è accordo; e con tale termine si intende la Sacra Scrittura come un testo unitario che ha in Gesù di Nazaret la chiave di lettura dell’insieme. In Lui nessun evento e nessun senso dell’evento è sminuito, così come nessuna lettura giudaica dell’AT è disattesa; al contrario, è accolta e fatta propria con discernimento critico, nel riconoscimento che Cristo Gesù è l’esegeta perfetto delle Scritture, le quali a Lui tendono come alla loro chiave interpretativa.

1991 – «DIO CHIAMÒ L’UOMO E GLI DISSE: ‘DOVE SEI?’» (Gen 3,9)

IL PECCATO DELLE ORIGINI

1. L. Monari Il primo racconto della creazione (Gen 1,1-2,4a)

Il processo della creazione è immaginato dall’autore sacro come un passaggio da un inizio caotico ad un mondo ben organizzato e ordinato, in cui i vari elementi sono distinti e compiuti. Dio Si compiace del mondo che ha creato e lo trova degno di esistere. Quindi c’è un giudizio positivo da parte di Dio su ogni realtà creata. I sei giorni della creazione tendono a presentare l’opera di Dio come un’opera sempre più complessa e nobile. Dal primo all’ultimo giorno vi è un crescendo di complessità e di ricchezza nelle forme dell’esistenza; allora si capisce perché la creazione dell’uomo venga riservata per il sesto giorno, ossia l’ultimo giorno di “lavoro”. L’ultimo giorno, il settimo, riservato al riposo, ha una grande importanza, in quanto fa come da spiegazione ultima dell’esperienza del tempo, il quale entra nel progetto di Dio: nel tempo Egli crea, Si fa conoscere, salva.

2. F. M. Feltri Il secondo racconto della creazione (Gen 2,4b-25)

In questo racconto della creazione l’immagine è di un mondo primordiale. Qui non si racconta la creazione del mondo, ma la si dà per scontata: Dio ha creato il mondo, che si mostra secco e desertico. Dopo avere fatto piovere e avere reso il mondo abitabile, Dio plasma l’uomo con la polvere del suolo. Anche in Gen 2 c’è l’idea della posizione primaria dell’uomo rispetto alla creazione e del dominio dell’uomo su di essa. Questo uomo, fragile e potente allo stesso tempo, viene collocato in un giardino affinché lo lavori. Il lavoro è una attività con cui l’uomo esercita la propria superiorità sul creato, ma è anche un modo con cui si prende cura di un creato del quale non può sentirsi assoluto e totale dominatore.

Vi è poi la creazione della donna, con la quale vi è un rapporto paritetico: tra i due esiste una sostanziale uguaglianza e nessuno dei due ha dominio sull’altro.

3. A. Bonora Il peccato delle origini in Genesi 3

In Gen 1-2 Dio è tutto per l’uomo e Si prende cura di lui; Dio gli proibisce soltanto l’albero della conoscenza del bene e del male. Segue poi la scena della tentazione, che consiste innanzi tutto nel mettere in discussione l’immagine di Dio presentata in Gen 1-2. La vera domanda del serpente è: chi è Dio e quale è l’atteggiamento dell’uomo nei suoi confronti? Dopo che l’uomo ha mangiato il frutto dell’albero, comunque Dio si prende ancora cura di lui andandolo a cercare e ponendolo di fronte alle sue responsabilità. L’uomo si nasconde e Dio lo va a scovare, ma non per accusarlo, bensì con l’obiettivo di portarlo ad una presa di coscienza lucida della propria responsabilità. Ma poiché l’uomo non riconosce il suo peccato, la condizione umana diventa una condizione miserevole, di fuga da Dio, di fatica. L’uomo ha

ascoltato la voce del serpente, che non è la voce della scelta libera e responsabile davanti a Dio, non più visto come Colui che cerca il bene dell’uomo.

4. E. Poli Genesi 3 nella riflessione ebraica

Il racconto della caduta di Adamo è inteso dalla tradizione rabbinica come paradigma della storia di Israele. Un’antica tradizione rabbinica identifica l’albero della vita con la Torah, il che implica l’idea che la trasgressione di Adamo sia stata una trasgressione della Legge. Si vuole evidenziare che già dal principio il rapporto tra Dio e uomo è posto sotto il segno dell’obbedienza: obbedienza dell’uomo a Colui che lo ha creato per grazia. E tanto era alta la dignità dell’uomo – creatura divina ed operazione della sua grazia – quanto si rivela rovinosa la sua caduta, conseguenza della trasgressione. Tuttavia, per i saggi di Israele, Gen 3 non è il racconto di una caduta inarrestabile, bensì di una storia di salvezza: è il racconto di come, nonostante tutto, prevalga la misericordia di Dio e di come l’uomo esca perdonato dal giardino dell’Eden. E, per rimarcare tale chiave di lettura, l’interpretazione rabbinica sfrutta ogni sillaba del racconto, ogni allusione, persino ogni silenzio.

5. U. Neri Genesi 3 nella riflessione dei Padri

6. D. Giannotti Adamo e il peccato nel ‘Decreto sul peccato originale’ del Concilio di Trento

Il “Decreto sul peccato originale” è il primo documento dogmatico emanato dal concilio di Trento. Il concilio vuole determinare la posizione cattolica di fronte alle dottrine luterane, riconoscendo la base comune (la fede nel peccato originale) ed il contra sto (riguardo agli effetti del battesimo per ciò che concerne la cancellazione del peccato). Il punto centrale è l’affermazione cristologica ed ecclesiale secondo cui «l’uomo, il quale ha assolutamente bisogno della grazia di Cristo largitagli nel sacramento della chiesa, per questa grazia cristica e sacramentale è veramente liberato dal peccato». In secondo luogo sta la dottrina antropologica del peccato (morte dell’anima per cui è necessaria la grazia e dal quale essa libera l’uomo) che è uno per origine, che è trasmesso per generazione e che inerisce a ciascuno come proprio. Infine vengono le affermazioni “eziologiche”, che caratterizzano il peccato tramite il racconto della sua origine.

1992 ANNUNCIARE IL VANGELO:IL KERYGMA NEL NUOVO TESTAMENTO

1. R. Fabris L’annuncio del Vangelo in Matteo

In Matteo l’annuncio ha come contenuto Gesù Cristo e solo Lui: l’annuncio riguarda Gesù come Figlio di Dio, il quale rivela il volto del Padre agli uomini. Egli è il Messia mite e compassionevole: la sua non è una mitezza imbelle, rassegnata, passiva, bensì è l’amore che si lascia coinvolgere dalla miseria e diventa compassione. Fondamentale in Matteo è Dio Padre, del quale l’evangelista sottolinea l’aspetto della trascendenza, dell’iniziativa gratuita, della relazione intima e profonda, che sta alla base di ogni esperienza religiosa. Ancora: in Matteo la Chiesa è una comunità di fratelli a partire da Gesù il Figlio: la volontà del Padre è una volontà di amore e non più un’imposizione che opprime con fatica, in quanto è un dono fatto ai figli. Dal punto di vista etico bisogna amare come ama l’«Unico Buono», e ciò è possibile mettendosi al seguito del Figlio.

2. B. Maggioni L’annuncio del Vangelo in Marco

Nell’opera di Marco l’annuncio del Vangelo è che la “lieta notizia” è Gesù stesso. Si tratta dell’avvenimento di Gesù Cristo persona, storia, e non soltanto il suo discorso sul regno: la sua persona e la sua storia sono la lieta notizia. In Marco l’idea di scrivere il vangelo nasce dall’intuizione che, al fine di comprendere chi è Gesù Cristo, bisogna raccontare la sua storia: è la vicenda di Gesù Cristo che rivela chi Egli è. E il centro prospettico del racconto è la croce. Gesù definisce sé stesso in termini di comportamento. Infatti, per fare capire chi è, mostra che cosa è venuto a fare: a chiamare i peccatori e a servire e dare la propria vita in riscatto nella morte sulla croce. La lieta notizia del vangelo rivela la risurrezione del crocifisso, cioè di colui che ha creduto e manifestato questo volto di Dio. A risorgere è una vita donata, è una vita che qui sembra perdente, in quanto terminata su una croce; invece Egli è vittorioso. Quindi la vittoria sulla morte è un tipo di vita che sembra perdente, mentre in realtà è vittoriosa: questo è il grande annuncio.

3. E. Manicardi L’annuncio del Vangelo in Luca-Atti

In Luca fondamentale è lo Spirito Santo: non si può parlare di evangelizzazione senza partire dallo Spirito. Lo stesso Gesù, cominciando la sua evangelizzazione, sottolinea tale aspetto: si presenta come colui che ha ricevuto lo Spirito. Ed è lo Spirito che lo manda ad evangelizzare i poveri: sono costoro i principali destinatari dell’evangelizzazione. Un secondo aspetto dell’evangelizzazione in Luca è l’accoglienza dei peccatori: il Vangelo ai poveri non può non essere anche un Vangelo per i peccatori. La terza dimensione è la radicalità: Gesù è venuto a chiamare ad atteggiamenti davvero radicali (portare la propria croce; mettersi in ascolto della sua Parola). Un ultimo elemento è la prospettiva ultima dell’evangelizzazione di Gesù: l’universalismo introdotto tramite la Pasqua apre ad una prospettiva che abbraccia tutti gli uomini. È una prospettiva di Vangelo che si concentra su poveri e peccatori, ma che è pure orientata a tutte le genti e che non lascia fuori nessuno.

4. G. Segalla L’annuncio del Vangelo in Giovanni

Nel quarto vangelo il verbo “evangelizzare” per Giovanni è espresso con “testimoniare”. Infatti “testimoni” sono Giovanni Battista, «il discepolo che Gesù amava», Gesù stesso. Il contenuto di questa testimonianza è l’incarnazione del Verbo, il quale è sullo stesso piano divino di Dio e, contemporaneamente, è anche assolutamente dipendente dal Padre. Nel confronto con Gesù l’uomo rivela sé stesso; scopre, cioè, di essere la tenebra o di poter essere la luce, di poter essere figlio di Dio in Gesù attraverso la fede in lui. Pertanto Gesù viene a dividere gli uomini: essi devono prendere posizione di fronte a lui. L’incarnazione del Figlio di Dio svela agli uomini il volto stesso di Dio, che si rivela al massimo grado sulla croce. Per Giovanni la croce è il compimento dell’amore. E il messaggio e la testimonianza di Giovanni proseguono nella comunità cristiana, la quale continua nel mondo la presenza e la fede in Gesù, che è attivo nell’amore e attrae il mondo a sé.

5. P. Lombardini L’annuncio del Vangelo in Paolo

Il cuore del Vangelo paolino è la parola della croce. Lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo, che è immagine di Dio e che si svela nell’immagine del Crocifisso, è per Paolo la parola della croce. L’Apostolo riconosce il volto di Dio nel volto glorioso del Signore risorto che mostra la sua identità con il Crocifisso. Addirittura per Paolo il corpo del Crocifisso segna i confini e il senso del corpo delle Scritture, che trovano in lui il loro inveramento. Due sono le convinzioni fondamentali di Paolo: la prima è quella della signoria di Cristo, il Figlio; la seconda è che egli si sa chiamato da Dio ad essere apostolo dei gentili. Paolo muove sempre da Gesù stesso e dalla salvezza basata su di lui, che è donata con la sua morte sulla croce, con la sua risurrezione, con la sua esaltazione come Signore: tutti eventi che formano l’oggetto del Vangelo e della predicazione di Paolo.

1993 VIVERE NELLA GIUSTIZIA

1. A. Ranon La legge di Mosè: opera di giustizia

Nella Torah si trovano tre gruppi legislativi (Es 20-23; Dt 12-26; Lv 17-26), che toccano la legislazione cultuale, sociale, criminale, patrimoniale, processuale. Diverse di queste leggi si ritrovano anche nei codici legislativi di altri popoli antichi, il più celebre dei quali è il “Codice di Hammurabi” (XVIII secolo a.C.). L’elemento fondamentale che differenzia la legge di Israele da quella degli altri popoli è che si tratta di una legge di libertà, poiché data dal Dio liberatore. E come il Signore ha liberato il suo popolo, così adesso chiede, attraverso questo codice, di instaurare all’interno della società rapporti che rispettino la libertà del fratello. Dunque il senso di tutte le leggi è il seguente: il Dio della libertà chiede al suo popolo di somigliarGli. Per questo il Codice dell’Alleanza ha tanti aspetti che non indicano semplicemente delle regole, ma che chiedono che l’atteggiamento interiore e profondo dell’uomo sia in sintonia con quello del proprio Dio.

2. G. Anelli Il giusto e l’empio nei libri Sapienziali

Se da un lato Israele attinge molto dalla sapienza dei popoli vicini, tuttavia la sapienza di Israele ha uno specifico particolarissimo e inconfondibile: non è soltanto ricerca umana, ma è un dono da Dio. Il suo fondamento è il “timore di Dio”, che è la conoscenza di Dio nella fede, nell’obbedienza, nel culto; ed è il principio e la sorgente della sapienza. La sapienza genera giustizia e vita, ossia una vita nella giustizia; è una giustizia che è la vera vita, cioè il vero rapporto dell’uomo con l’intera realtà: con sé stesso, con i propri simili, con il mondo che lo circonda e, infine, con Dio. Il giusto è colui che, attraverso la sapienza (ossia la conoscenza di tutta la realtà), coglie l’ordine primordiale di creazione (quindi di Dio). Attraverso la sapienza e la giustizia si entra nella benedizione primordiale che Dio dà al mondo.

3. M. Laconi Gesù annunciatore della giustizia di Dio secondo il vangelo di Matteo

La giustizia del regno è molto difficile: Gesù non chiede poco. Però non si tratta di un comportamento che scaturisce dalla propria virtù, bensì dall’accettare l’influsso di Dio nella propria vita. Questo Gesù che insegna la giustizia del regno che sembra così pesante, non chiede nulla: egli dà. Bisogna provare ad avvicinarsi a lui: chi fa l’esperienza del regno si accorge che l’insegnamento di Gesù, se accolto da lui e vissuto in comunione con lui, non è un peso. Per chi è unito a Dio, per chi è in comunione affettuosa col Padre, per chi ha la passione per il regno sono possibili tante cose. L’evangelista Matteo non è un moralista, né un formalista o uno che insegna delle cose molto belle che però sono irraggiungibili. Invece Matteo spiega da dove viene la forza per realizzare la giustizia del regno: viene da Dio stesso.

4. G. Giavini La giustizia religiosa e sociale nel pensiero paolino Con “giustizia religiosa” si intende la giustizia che riguarda il rapporto Dio-uomo, che per Paolo ha una grande rilevanza. La “giustizia sociale” deriva da quella religiosa. Paolo afferma di essere giusto davanti a Dio e in giusto rapporto con Lui per la fede, non per le opere, che pure ha compiute. È ciò che Dio ha fatto per l’uomo – e che l’uomo accoglie con la fede – che lo pone in giusto rapporto con Lui. La giustizia di Dio precede l’uomo: l’uomo è a servizio della giustizia di Dio. L’uomo non è a servizio della giustizia della Legge, bensì della giustizia del Dio della Legge. In concreto, il servizio alla giustizia di Dio consiste nella vita di carità all’interno della Chiesa. Dio è oltre la Legge che ha data, tanto che è capace di mandare il proprio Figlio a finire come un «maledetto» secondo la Legge. Esiste una giustizia superiore ad ogni legge umana, che è quasi da inventare in ogni momento. Non c’è nessun codice che indica cosa si deve fare qui e adesso: l’unico “codice” esistente non è un libro, ma un crocifisso.

5. F. Appi La giustizia nella “Centesimus Annus”

La giustizia è la costante e ferma volontà di dare al prossimo e a Dio ciò che è loro è dovuto. La giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno. “Giustizia” e “diritto” sono collegati: il diritto è la radice della giustizia e la giustizia è il rispetto del diritto. Nella “Centesimus Annus” il discorso della verità è sempre presente: essa è lo scopo della ricerca dell’uomo ed è esercitata dal momento in cui inizia a mettersi in ricerca: la ricerca della verità è già il momento della libertà. Ed è nella ricerca che si inserisce il dialogo di Dio con l’uomo nella storia: se non vi fosse tale ricerca, non esisterebbe possibilità di dialogo fra l’uomo e Dio, in quanto Dio è proprio quella verità che l’uomo va cercando. La giustizia è il riconoscere e il “dare a ciascuno il suo”, un “suo” che è inerente alla dignità della natura della persona umana: è un “suo” che ognuno possiede per il fatto stesso di essere una persona. Il messaggio della “Centesimus Annus” è che bisogna mediare la giustizia e farla diventare un principio politico qui e ora, facendola fruttare all’interno della propria convivenza civile.

1994 – SABATO E DOMENICA: GIORNI DEL SIGNORE

1. L. Caro Le origini e il precetto del Sabato

Il Sabato è uno dei simboli più caratteristici – e forse anche uno dei più difficili da capire – della tradizione ebraica. È dedicato alla riflessione interiore e a compiere una vita sociale che non è possibile durante gli altri giorni della settimana (stare in famiglia; visitare i malati); è il ricordo dell’uscita dall’Egitto e quindi, non mettendo gli altri in condizioni di non lavorare, ricorda quando gli Ebrei erano costretti a lavorare come schiavi del faraone. Nel Sabato si esprime l’assoluta uguaglianza di tutti gli esseri umani: non esistono più servi o padroni, ma tutti sono vincolati ad una normativa che lascia ogni persona indipendente l’una dall’altra. L’osservanza del Sabato è il fuoriuscire dalla normalità della vita quotidiana per gustare un piccolo assaggio di quello che sarà il mondo futuro, cioè un mondo totalmente orientato alla contemplazione e al servizio di Dio.

2. P. De Benedetti Il Sabato e la tradizione ebraica

Il racconto di Gen 1 è stato scritto all’epoca dell’esilio babilonese (VI secolo a.C.) al fine di collegare la creazione del mondo all’osservanza del Sabato, proprio per inculcarne l’osservanza. Un’altra cosa da ricordare è l’uscita dall’Egitto, in quanto il Sabato è un giorno di libertà, mentre in Egitto gli Ebrei non erano liberi e non potevano osservare il Sabato. L’Esodo è quindi condizione di essere popolo, di essere liberi, e perciò di poter osservare il Sabato. Per sei giorni Dio lascia la creatività all’uomo; tuttavia un giorno ogni sette tale creatività torna esclusivamente a Dio, il quale si rende imitabile dall’uomo cessando. Infatti l’unico precetto fondamentale del Sabato è cessare ogni attività, per fare sé stessi. Un’altra caratteristica del Sabato è che si tratta di una santificazione non dello spazio, ma del tempo: il tempio del Sabato è la casa di ogni Ebreo.

3. P. Stefani Le tensioni tra il Sabato e la Domenica

1995 – L’ALTRO, IL DIVERSO, LO STRANIERO

1. E. Bianchi Israele e le genti nell’Antico Testamento

Israele è il popolo dell’Alleanza: è il solo popolo in cui si compiono le promesse di Dio, poiché è a lui solo che sono state fatte. Ma tutto il resto che Israele possiede deve essere condiviso con gli altri: la benedizione va condivisa con le genti, così come l’Alleanza. Così anche i pagani saranno benedetti: il Signore chiama tutti gli uomini alla salvezza. Ecco perché, quando Dio benedice Israele, il suo scopo è che la benedizione passi da Israele alle genti. La promessa dei tempi escatologici non prevede soltanto pace tra Israele e le genti, ma anche la formazione di un solo popolo del Signore. Quando ciò avverrà, il più bel risultato sarà l’eliminazione della morte. Se Israele e i popoli troveranno la possibilità di essere un solo popolo di Dio, la morte sarà eliminata per sempre. Chiaramente è una visione escatologica, ma è questo il messaggio.

2. L. Manicardi Le genti nella preghiera dei Salmi

Nel Salterio si può trovare l’asse portante che governa nell’AT il rapporto Israele-genti: l’elezione, che situa Israele tra le genti: è un modello di rapporto tra particolare e universale. Due sono gli atteggiamenti salienti della preghiera dei salmi: la lode a cui tutti i popoli sono invitati e le imprecazioni e le invettive contro le genti. Altre due categorie di salmi rappresentano il dinamismo universalista presente nell’AT: i “salmi del regno di Dio” (inneggianti a Dio come Re di tutte le genti) e i “salmi di Sion” (animati da un “sionismo” aperto alle genti). I popoli sono invitati alla lode di fronte all’instaurarsi del Regno di Dio da parte del Messia; ma a questa lode si perviene attraverso un giudizio, anche delle genti. Nella sua redazione il Salterio è orientato escatologicamente: la prospettiva che emerge è quella dell’adorazione di Israele, di una adorazione orientata escatologicamente e in senso universalistico.

3. R. Fabris Gesù e gli stranieri

L’azione e la parola di Gesù che rendono presente il regno di Dio nella storia si ispirano a due criteri: la gratuità (il regno di Dio è grazia, è libero e sovrano intervento di Dio nella storia. Dio è mosso da compassione: la gratuità della sua azione fonda l’apertura universale del regno) e la storicità: proprio il fatto che Gesù abbia limitato la sua azione a Israele e alle sue pecore perdute, con gesti simbolici anticipatori in cui l’apertura della fede prelude al futuro, conferma la linea della storicità. Fondamentale è la dimensione dell’incarnazione, che è l’immersione di Dio nell’umanità concreta di Gesù: lui, Ebreo, quindi in un popolo preciso, con la sua cultura, è il luogo in cui Dio fa scoprire l’universalità a partire dalla gratuità. L’incarnazione di Dio apre all’accoglienza degli stranieri come pratica per annunciare il Vangelo di Dio, cioè la buona notizia della regalità di Dio che dà dignità e libertà a tutti gli esseri umani.

4. P. Lombardini Paolo apostolo delle genti

Paolo ragiona in termini di storia mondiale. L’originaria paternità dell’unico Dio si manifesta nello splendore della molteplicità delle culture e delle famiglie umane appartenenti all’unica umanità. Tuttavia l’universale è vero – e non diventa assassino – soltanto se è vissuto nel concreto. A partire dall’esperienza sulla via di Damasco Paolo incontra l’Altro per eccellenza: è un’esperienza di “stranierità”. Così Paolo scopre “l’altro” in sé e scopre una missione di apertura verso l’altro, che nella concezione ebraica è lo straniero. Per Paolo nelle comunità cristiane l’agape da un lato

ristabilisce la comunità sulla base delle differenze, rispettate ed onorate e riconosciute indispensabili le une alle altre; dall’altro fa dell’amore ciò che non cessa di scoprire e di marcare l’originalità dell’altro, cosicché l’unione e la diversità crescono insieme.

1996 – COPPIA E FAMIGLIA: LUOGO DI BENEDIZIONE

1. E. Manicardi L’uomo creato come coppia

L’uomo e la donna nel racconto della creazione e nell’insegnamento di Gesù

Secondo le Scritture la relazione uomo-donna sta al cuore del vero “essere uomo”. Non si può essere «immagine e somiglianza di Dio», senza esserlo come “uomo” o come “donna”, quindi in relazione con l’altro, non da soli. Per la Bibbia la relazione uomo e donna è stupenda (Genesi 1-2), è ferita (Genesi 3 più la storia dell’umanità), ma è pure redenta. Infatti Gesù ha preso posizione fortemente: ha ricostituito il disegno di Dio e lo ha ripresentato in una modalità concretamente mai conosciuta prima. Gesù di Nazaret è il redentore del rapporto uomo-donna e, quindi, in questo senso può parlare ed esigere che ognuno dia il primato all’amore, anche nell’ambito della sessualità e della relazionalità. Nelle sue lettere Paolo presenta una visione della sessualità e della coppia molto positiva: mostra un grande senso dell’importanza del rapporto uomo/donna e dell’importanza della sessualità.

2. L. Mazzinghi La famiglia nel libro di Tobia

Bellezza dell’amore e spiritualità familiare

Il vecchio Tobi cade in disgrazia poiché diventa cieco e va in ristrettezza economica. Allora manda il figlio Tobia a prendere del denaro da un lontano parente. Nel viaggio Tobia è accompagnato da un amico misterioso (che il lettore – ma non Tobia – sa essere l’angelo Raffaele, che veglia su lui). Quando Tobia arriva, incontra Sara e i due si sposano; poi tornano a casa dal vecchio Tobi, che recupera la vista. Alla fine del libro Tobia e Sara, Tobi e Anna, sono diventati una nuova famiglia, che comprende come non sia possibile chiudersi in sé stessi: essi devono diventare testimoni dell’amore di Dio, devono farlo conoscere a tutti. Per una coppia che ha incontrato il Signore non è possibile vivere

chiusa in sé stessa. Occorre che questa coppia diventi il testimone e il segno dell’amore di Dio per gli uomini, abbia cioè una funzione nel mondo.

3. G. Dossetti jr.

La novità cristiana nella vita di coppia

I cristiani nelle prime comunità e l’esperienza familiare nel mondo antico

Nella dottrina di Gesù ci sono due novità assolute che ricorrono solo nel Cristianesimo: il rifiuto del divorzio e il valore dato alla continenza e alla verginità (pur in presenza di una visione positiva della sessualità). Il senso dell’atteggiamento di Gesù verso il matrimonio nasce dalla coscienza escatologica, cioè di essere il portatore del Regno di Dio. Infatti fondamentale è l’evento di grazia che Gesù compie nella sua predicazione, nella sua persona e soprattutto nella sua croce. Il risorto entra nella dimensione ultima, dove non c’è più la storia, ma l’eternità. Quindi la risurrezione è la comunione con Dio, l’ingresso nella sua dimensione. Allora diviene chiaro che il matrimonio è una “realtà penultima”,

mentre la verginità è una “realtà ultima”. Dunque nel cristianesimo c’è un dualismo non metafisico (materia/spirito), né morale (buono/cattivo), bensì escatologico (prima/dopo).

1997 – REINCARNAZIONE O RISURREZIONE?

1. A. Filippi Le «dicerie» sulla risurrezione di Cristo

Attendibilità dei racconti della risurrezione: oggettività storica? miti? leggende?

La risurrezione è da coniugare su due versanti: 1. risurrezione di Cristo; 2. risurrezione dell’uomo. Parlare di risurrezione spinge inevitabilmente a parlare di Gesù e della sua risurrezione e ad interrogarsi sulla risurrezione della carne, intesa come il destino che coinvolge ogni persona. Per i primi cristiani la risurrezione è collegata alla parola “testimoni”: il compito degli Apostoli è testimoniare la risurrezione. Ed è la risurrezione che definisce la comunità delle origini. Inoltre la risurrezione viene usata per definire che cosa è la nuova fede nei confronti dell’ebraismo ed anche per definire cosa è la nuova fede nei confronti dei gentili.

2. C. Rizzi La dottrina della reincarnazione nelle

tradizioni religiose indiane

Buddhismo, induismo

La dottrina della reincarnazione è uno dei capisaldi, ma pure una delle maledizioni in cui gli uomini incappano e dalla quale si sforzano di liberarsi in ogni modo. Nell’induismo ci sono le dottrine della “azione producente sempre un frutto” (“Karman”) e quella della “trasmigrazione dell’anima” (“Samsara”), tra loro intimamente connesse. Ogni azione compiuta dall’individuo porta sempre con sé un frutto, determinando pertanto la condizione della sua futura esistenza: da un’esistenza si passa in un’altra, la quale è determinata dalle azioni compiute nella precedente (tale catena di esistenze è detta “Samsara”). Però lo scopo finale di ogni vita è ottenere il “Moksha”, cioè la “liberazione dal ciclo

delle ri-nascite e delle ri-morti”. Invece secondo il buddhismo non esiste l’“Io” personale: ciò che si è ora è un momentaneo aggregato di elementi materiali e psichici. La vita continua sempre, ma non assolutamente identica a ciò che esisteva nella vita precedente. Pertanto nel buddhismo la reincarnazione significa propriamente soltanto il “ridivenire”.

3. R. Fabris Identità cristiana e il “mito” della risurrezione

Un commento a 1 Cor 15

Chi sono i cristiani dipende dalla fede in Gesù crocifisso, risuscitato da Dio: questa è la “buona notizia”. I cristiani di Corinto credono che Gesù, il Figlio di Dio, è risuscitato dai morti; ma ciò riguarderebbe personalmente Gesù e non toccherebbe il destino degli altri esseri umani, che finirebbero nella morte. Un secondo problema è: con quale corpo si risuscita (il corpo è visto come un elemento di corruzione e di pesantezza)? Cosa c’entra il corpo con lo spirito e con la potenza di Dio? Paolo offre – a partire da Dio creatore, incarnato e risuscitato, che ha vinto la morte – una antropologia unitaria: l’essere umano è un tutto nella duplice dimensione. Dunque “corpo” e “spirito” formano una realtà aperta la futuro di Dio. Inoltre la prova che Gesù ci ha amati e che Dio ha mantenuto l’impegno che Gesù ha assunto nei nostri confronti è proprio la sua vittoria sulla morte. Ed è su tale certezza che i credenti fondano il loro essere cristiani.

4. L. Cattani Reincarnazione o risurrezione?

Un confronto fra le due dottrine

Induismo e buddismo si fondano su una “illuminazione” o su un “risveglio” acquisiti da alcuni veggenti o da sapienti i quali, in virtù della loro meditazione, conseguirono la illuminazione fondamentale e la conoscenza del vero. Invece il cristianesimo si fonda essenzialmente su un fatto storico e insieme salvifico, di cui alcuni uomini sono stati testimoni oculari. Tali uomini hanno trasmesso il dato di questa rivelazione: Dio è entrato nelle vicende umane e si è rivelato ad alcuni uomini, in virtù di un fatto fondamentale, ossia del mistero di Cristo, che è il centro dell’intera rivelazione.

1998 – «DIO FA SCENDERE AGLI INFERI

E RISALIRE» (1 Sam 2,6)

LA SOFFERENZA NELLA SACRA SCRITTURA

1. F. Mosconi Il dolore antagonista della vita

– Un commento a Romani 5,12-17

Per Paolo l’intervento per salvare l’umanità che Dio compie è un intervento che genera la fede. Il compiersi della salvezza suppone sia la rivelazione gratuita della misericordia divina, sia la libertà della creatura che risponde con un atto di fede. C’è un dono, una proposta di salvezza e c’è una risposta. Però l’uomo è giustificato soltanto in forza della speranza e in forza di Colui che lo attira a Sé. Nessuno potrebbe mai affrontare e superare le tribolazioni e le sofferenze della vita, se non fosse attirato, ossia la gloria di Dio non lo aspirasse verso di sé. La potenza della grazia sostiene, trascina, stringe l’uomo in un rapporto con il Dio vivente che non potrà essere contraddetto da alcuna calamità o contraddizione. Anzi, quanto più vivace sarà l’impatto con le calamità e le contraddizioni della vita umana, tanto più si rivelerà nel cristiano la forza vincente della speranza, perché si manifesta in lui la potenza attrattiva della gloria di Dio e la fedeltà della sua grazia.

2. L. Mazzinghi «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?» (Gb 2,10)

– La sofferenza di Giobbe

La vera domanda del satana all’inizio del libro è: Giobbe (dunque: l’uomo) è religioso perché gli conviene o per fede? Perché è facile essere credenti quando tutto va bene; la prova è essere credenti quando tutto va male! Colpito da terribili sciagure, Giobbe discute sul problema: come può esistere un dio che lo punisce benché egli sia innocente? Vuole arrivare alla radice del problema, chiedendosi come possa esistere Dio se esiste il male. Dunque Giobbe non è un ateo, ma è uno che non riesce a capire come Dio possa essere in “quel” modo e perché Dio resti muto alle sue proteste. Gli preme incontrarsi faccia a faccia col Dio in cui ha sempre sperato; quando lo farà, si accorgerà che Dio è proprio come lui se Lo immaginava! Dio non è come sostengono i tre amici con cui discute, ma gli viene incontro e gli si mostra. Quindi alla fine Giobbe può affermare: «Prima ti conoscevo per sentito dire, ora ti conosco perché ti ho visto».

3. E. Manicardi «Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori» (Is 53,10)

– La sofferenza di Gesù

Per Gesù il dolore è oscuro, poiché il dolore è sempre oscuro. Il suo dolore è vissuto non nel dubbio dell’esistenza di Dio, ma in una sua incomprensibile lontananza. Gesù soffre a causa della realtà che circonda l’uomo e che è anche l’uomo stesso; dunque il dolore non viene semplicemente da Dio che lo infligge. Il disegno (quindi il dolore) della morte di Gesù viene sì da Dio, ma la morte di Gesù non viene solo da Dio, bensì anche da ciò che gli uomini che sono stati con lui. Dalla vicenda di Gesù si apprende che Dio non rifiuta chi è nel dolore: vedendo Gesù soffrire in croce, si impara che Dio non ha paura di chi soffre. Inoltre, se viene accettato, il dolore apre l’uomo alla realtà che sta fuori di lui: sulla croce Gesù deve accettare Dio così come è. Per un cristiano “accettare il dolore” significa assumere la realtà

con tutte le incertezze, le malattie, ecc. Si tratta di assumere e di accettare la realtà così come veramente è e, per un cristiano, si tratta dunque non di ignorarla, ma di viverla con Gesù che è morto e risorto per lui.

4. G. Morandi «Beati voi quando vi perseguiteranno » (Mt 5,11)

La sofferenza del discepolo

La sofferenza è vista come un dato ineludibile nella vita apostolica del discepolo che si pone alla sequela di Gesù: ogni discepolo deve «prendere la sua croce». Paolo non è solamente un missionario che predica con tanto successo, ma è pure un apostolo perseguitato e isolato. Tanto che i grandi concetti e le idee teologiche che hanno reso accessibile la rivelazione di Cristo sono maturati sotto la pressione di incessanti attacchi e persecuzioni. “Persecuzione” e “confessione” sono elementi inseparabili nella vita di Paolo. Il discepolo non sceglie la sofferenza, ma – come Paolo – è un innamorato di Cristo; e lo stare con Gesù conduce il discepolo a comprendere che l’evangelizzazione avviene nella morte e nel dono di sé. Allora sia la sofferenza che il discepolo sperimenta dentro di sé per l’inadeguatezza di ciò che è rispetto a Cristo, sia la sofferenza che incontra nell’opposizione all’esterno e all’interno, sono sempre motivate dalla fedeltà al Vangelo e all’annuncio

5. L. Pagliarani Noi insofferenti

1999 – E DIO… CREÒ LA DONNA

LA DONNA NELLA SACRA SCRITTURA

1. L. Luzzatto La donna nel pensiero ebraico al tempo di Gesù

Figure bibliche femminili sono presenti nella memoria collettiva: le Madri d’Israele, Sara, Rebecca, Rachele e Lea, e tutte le donne che popolano gli scritti biblici (dall’esemplare Ruth, simbolo della fedeltà, alla bella e coraggiosa regina Ester, a figure meno positive quali la moglie di Giobbe, che parla per convincere il marito a deviare dalla fedeltà a Dio). Nel libro dei Proverbi è riportata la famosa lode della donna giusta, che viene lodata dal marito ancora oggi nel santo giorno del riposo sabbatico; invece il Qohelet riporta ad una visione pessimistica della vita e di misoginia nei riguardi delle donne. Insieme alle fonti tradizionali ebraiche, la ricerca scientifica, la letteratura storico-filosofica, l’archeologia, l’arte antica, la numismatica, danno un quadro articolato delle diverse situazioni in cui le donne ebree vivevano e agivano al tempo di Gesù.

2. A. Bigarelli Tamar, Racab, Rut, Betsabea, Maria

– Le madri che hanno generato il Messia

Soltanto Matteo registra la presenza di figure femminili nella genealogia di Gesù. Sono 5: Tamar (una cananea che dà una discendenza a Giuda, mostrandosi così più leale verso la Legge di Dio rispetto al figlio del patriarca Giacobbe); Racab (una prostituta pagana di Gerico, che tuttavia percepisce i disegni di Dio e favorisce i primi passi della conquista della terra di Canaan); Rut (una straniera pagana moabita: generosa, dagli affetti profondi, diventa betlemmita sposando un Israelita); Betsabea (moglie di Uria, subisce la passione di Davide; è oggetto di desiderio e causa di un delitto, ma genera Salomone). Quattro donne, quattro relazioni coniugali irregolari, quattro madri straniere diventano parte viva del popolo eletto di Dio. Poi la storia d’Israele decade e tutte le prospettive di riscatto sembrano compromesse per sempre, finché dalla Vergine di Nazaret, da Maria, per un’altra relazione “irregolare”, nella pienezza del tempo «fu generato Gesù chiamato il Cristo».

3. E. Bosetti Gesù e le donne

Il fascino di Gesù sulle donne è incontestabile. Leggendo i vangeli, si rimane colpiti dal rapporto con le donne di Gesù, che ha una libertà straordinaria. Egli osserva le donne, mostrando apprezzamento per il loro lavoro. Inoltre sa vedere non soltanto la loro fatica, ma anche la loro genuinità di fede e di amore. Il dialogo con la donna siro-fenicia mostra un Gesù che si lascia aiutare a uscire dai parametri culturali: egli le parla da ebreo, ma ella non si offende e riesce a fare il salto necessario, poiché Dio è sopra ai nostri schemi e darà pane a tutti: la donna pagana ha visto bene! Ancora: Gesù ha una comunità mista, perché diverse donne sono con lui in viaggio. Ci sono varie donne che condividono la fatica, che stanno con Gesù per le strade polverose: sono le “discepole itineranti”, che condividono le fatiche della missione.

4. P. Lombardini «Le donne nelle assemblee tacciano » (1 Cor 14,36)

Paolo e le donne

Più volte Paolo scrive di donne che sono “apostoli” o “diaconi”: nel loro complesso le lettere di Paolo manifestano un forte ingresso di donne nella vita della comunità e della missione. Il suo è un messaggio di liberazione della donna sulla base di una nuova esperienza comunitaria e sul fatto che la comunità è una “nuova creazione”. I modelli patriarcali, la sottomissione unilaterale delle donne, la loro esclusione dalla vita pubblica sono posti da Paolo in seria crisi e una loro giustificazione teorica è impraticabile. Però emergono i primi conflitti, davanti ai quali Paolo cerca di frenare. Così compare in Paolo una certa ambivalenza: in lui agiscono sia un pensiero tradizionale patriarcale, che un pensiero emancipatorio e liberatorio nei confronti della donna. Paolo mantiene dentro sé queste “due teologie”, che in lui convivono: enuncia il grande principio rivoluzionario e poi, quando si trova nella pratica a dover moderare conflitti e tensioni, in parte si blocca.

2000 – «OR TI PIACCIA LA SUA VENUTA GRADIR: LIBERTÀ VA CERCANDO, CH’È SÌ CARA, COME SA CHI PER LEI VITA RIFIUTA» (Purgatorio I 71-72)

LA LIBERTÀ NELLA SACRA SCRITTURA

1. L. Mazzinghi La libertà spezzata

L’uomo dopo Genesi 3

L’uomo ha la libertà di vivere e di agire secondo quella che noi moderni chiamiamo “coscienza” e l’AT chiama “cuore”. Essa è la radice di ogni altra libertà. Sbagliando, spesso Gen 3 è letto isolandolo da Gen 1-2, alimentando l’idea che Dio crea un mondo perfetto, rovinato poi da Adamo ed Eva, per cui Dio deve inviare il Figlio a rimettere tutto a posto (secondo lo schema: creazione, caduta, redenzione). Invece la prospettiva è differente: c’è un progetto di Dio sull’uomo e sul mondo, che l’uomo non può distruggere. Ci sono caratteristiche che Dio ha voluto che l’uomo avesse e che egli non perde neppure col peccato (il suo essere immagine di Dio, il compito di “lavorare”, la chiamata alla vita di coppia). Allora Gen 3 non mostra l’uomo che distrugge il progetto di Dio, bensì racconta che l’uomo che si oppone al progetto di Dio, che comunque resta valido. Dunque non c’è separazione fra “creazione” e “salvezza” e il progetto di Dio continua a realizzarsi nonostante il peccato dell’uomo. Ecco perché si può parlare di libertà “spezzata”, ma di non libertà “tolta”.

2. G. Benzi Dalla servitù al servizio

«Libera il mio popolo perché mi serva nel deserto» (Es 7,16)

L’“Ex-odos” è uscita, fuoriuscita, liberazione; è un ri-nascere, in cui creazione e liberazione si congiungono in un grande patto. Il Dio che crea è anche il Dio che salva; creazione e liberazione sono un atto unico. Faraone è il personaggio meglio descritto e più umano in tutto il libro dell’Esodo, che però si crede al centro di tutto e sopra tutto. E la sua caratteristica principale è l’indurimento del cuore, una ostinazione che, per essere vinta, richiede ben 10 “piaghe”: è l’immagine di un comportamento che Israele dovrà sempre ricordare di evitare. Per Israele il comando di celebrare la Pasqua come memoriale perenne fa sì che il popolo si incontri su un evento eccezionale operato da Dio in suo favore (la liberazione dall’Egitto) ricordandosi della sua povertà e debolezza (la fuga di notte, le erbe amare). Quella pasquale è la celebrazione di un segno efficace che rende Israele “popolo di Dio”, il quale trova il segno della sua unità nella celebrazione di tale rito, che spinge continuamente verso il futuro di quella comunità, indicando l’avverarsi della salvezza e della presenza di Dio qui e ora.

3. M. Marcheselli Gesù uomo libero

Nel quarto vangelo si trova una certa descrizione di Gesù che, senza impiegare il vocabolario specifico della libertà, tuttavia lo mostra con questi tratti. C’è un unico passaggio in cui si trovano i vocaboli “libertà” e “rendere liberi” in cui però all’apparenza Gesù, in quanto “uomo libero”, non c’entra; invece proprio lì si parla della libertà di Gesù. Per Giovanni, Gesù è l’uomo libero, la cui libertà è leggibile non semplicemente nelle descrizioni che questo vangelo fa di lui, ma anche in quelle che l’autore fa dei suoi discepoli, che entrano nella libertà che è propria del “Verbo incarnato”. Gesù costituisce la perfetta esemplificazione della libertà: la sua carne umana, la sua esistenza terrena vive e gode questa libertà. E in questo sta la radice della libertà di Gesù come “Verbo incarnato”: nel rapporto di ascolto e di adesione alla parola del Padre, alla verità che è il Padre.

4. M. Vironda Paolo prigioniero di Cristo

– La libertà in Paolo

L’idea di libertà di Paolo è connessa con l’annuncio del Vangelo e con l’annuncio di una libertà che viene proposta al cristiano. Tale libertà è sempre offerta attraverso Gesù Cristo, tramite l’evento della morte e risurrezione del Signore. Quindi nell’ottica di Paolo il cristiano riceve una libertà che prima non poteva sperimentare ed è una libertà che trasforma – sia nella comunità che nella vita personale del singolo – in un nuovo stato di vita diverso dal precedente. L’uomo che crede in Cristo è liberato dal “Peccato”, cioè dalla forza del male che agisce limitando l’uomo e che tiene in schiavitù l’intera umanità; ma anche dalla Legge, dalle “potenze celesti”, dalla “carne” e persino dalla morte. Paolo parla della libertà sempre come resa possibile da Cristo per mezzo della fede: l’uomo può accedere a questa libertà se crede.

5. L. Prezzi La libertà del cristiano

Il senso della libertà del cristiano ha a che fare con l’immagine di Dio e di Gesù di Nazaret, con l’annuncio del Dio affidabile che Gesù ha portato, con l’immagine del Dio Trinità (fondamento della fede cristiana) e con la promessa del Regno. Quello della libertà cristiana non è un tema a lato dell’esperienza, né è qualcosa che si aggiunge: esso è da sempre al cuore della verità cristiana. La libertà deve essere intesa come “parresìa”, ossia come capacità di libero annuncio del Vangelo, ma anche come capacità di libero giudizio sulla civiltà contemporanea e pure sulla vita ecclesiale; come “testimonianza” (in senso forte: l’essere testimoni, l’essere martiri); come “richiesta di perdono”: saper riconoscere il proprio peccato e riconfermare proprio in tale riconoscimento di colpe una reale libertà nei confronti del Signore.

2001 – L’ALDILÀ

1. J. L. Ska «Il sepolcro sarà loro casa per sempre»

(Sal 49,12) – L’Aldilà nell’AT

La concezione di Aldilà spunta tardi nella storia di Israele (II secolo a.C.): in un periodo di persecuzioni nasce l’idea che colui che accetta di morire per rimanere fedele a Dio non può essere abbandonato da Dio stesso, in quanto ciò non sarebbe giusto. Egli è il Giusto per eccellenza e non è possibile che Dio, l’unico e vero Giusto, commetta la grande ingiustizia di abbandonare completamente chi muore per rimanerGli fedele. Poiché chiaramente la morte del fedele impedisce la risoluzione su questa terra, deve esistere per forza “qualcosa” nell’Aldilà per ristabilire la giustizia spezzata. Inoltre Dio è il creatore, Colui che dà la vita: a Lui non può essere impossibile creare una seconda vita dopo

la morte. Tuttavia, la cosa più interessante è che per la Bibbia ebraica la vita importante è questa vita che noi viviamo adesso su questa terra, e non la vita oltre la tomba. È nel rapporto con Dio e con i fratelli in questa vita che si trova il centro di tutto.

2. E. Manicardi «Alla risurrezione si è come angeli del cielo» (Mt 22,30)

L’Aldilà nel NT

Se da un lato Gesù non fornisce descrizioni dell’Aldilà, dall’altro lato il suo insegnamento si è aperto decisamente alla prospettiva dell’Aldilà, rivelando una cosa importantissima: si passa di là attraverso la risurrezione. Dunque non si passa come trasmigrazione dell’anima, bensì come risurrezione. Però non sarà semplicemente la risurrezione del mondo in cui viviamo: nell’Aldilà ci sarà un rapportarsi non più fisico. In 1 Ts Paolo afferma che i credenti andranno verso Dio «e così saremo sempre con il Signore». In 1 Cor scrive come nell’Aldilà, spogliati del «corpo respirante» che possediamo ora, indosseremo un «corpo spirituale» (sembrerebbe un concetto contraddittorio: un “corpo”, cioè materia, carne, che è “spirituale”!); e che, alla fine di tutto, «allora Dio sarà tutto in tutti». Dunque, così come Gesù, neppure Paolo descrive come sarà l’Aldilà, ma la sua attenzione è invece rivolta al fatto di essere in piena relazione con Dio.

3. A. Nitrola La Chiesa e l’Aldilà

– La visione del Magistero

Non potendoci essere, per ovvi motivi, descrizioni di esperienze vissute dell’Aldilà, si è costretti a parlarne attraverso immagini. Naturalmente queste immagini “dicono ma non dicono”: non hanno (né possono avere) la pretesa di essere una descrizione perfetta dell’Aldilà e cambiano significato a seconda di come vengono comprese da chi le ascolta. Per questo la Chiesa non si è mai avventurata nella descrizione dell’Aldilà. Allora solo in termini di speranza ha senso fare un discorso sull’aldilà e la chiesa: la chiesa crede l’aldilà in quanto lo spera, ma ciò significa che cerca di portarne un anticipo nella storia degli uomini. Infatti la chiesa vuole annunciare l’aldilà guardando alle ferite dei poveri che incontra lungo la strada nell’al di qua, offrendo loro qui sulla terra la speranza di una vita non solo subita e sofferta.

4. P. Zoccatelli Credenze sull’Aldilà

Pensieri, opinioni, idee nell’immaginario collettivo

Sono state tutte smentite le profezie di una società secolarizzata: si verifica piuttosto il proliferare di nuove forme di religione. E in tema di sacro l’uomo moderno ha oramai le idee più disparate (in Italia sono presenti ben 700 religioni; ma sono 20.000 nel mondo, cioè 20.000 sistemi diversi di rispondere alla medesima domanda). Sempre più frequente è il contesto del “credere senza appartenere”: la persona crede in un certo numero di cose, ma non fa parte di una realtà. Si era sempre immaginato il fatto religioso come un fatto di “appartenenza”; invece oggi il fatto religioso è vissuto per lo più come un fatto di “credenza”. Allora per la chiesa cattolica la sfida è “la nuova evangelizzazione”, cioè non un “nuovo vangelo”, bensì “il Vangelo detto di nuovo”: il Vangelo è stato tralasciato, dimenticato; allora si tratta di ridirlo da capo.

2002 – IL POTERE

1. L. Mazzinghi Il Re ed il Profeta

Due poteri in conflitto

In Israele il re detiene il potere giudiziario; però non è mai legislatore, anzi è il primo tenuto ad ubbidire alla Legge di Dio. Accanto al re appare la figura del profeta, che funge da “coscienza critica” della monarchia. Una coscienza critica fondata su basi religiose: il profeta si pone come colui che giudica la condotta del re in base alla parola di Dio. Quella del profeta è una figura istituzionale e, sebbene spesso sia ai margini e la sua parola sia rigettata, tuttavia nessuno mette in dubbio il suo diritto a parlare. Le grandi figure profetiche vanno di pari passo coi re di Israele, ma anche coi momenti di crisi, intervenendo per rivelare al re in quale direzione lo manda Dio: se il re ascolterà la parola del Signore avrà successo, altrimenti cadrà nel fallimento. La vera profezia ha una sola arma: la parola del Signore. E il profeta accetta anche di pagare di persona, di rischiare la vita, di non essere ascoltato; l’unica cosa che gli interessa è annunziare la parola del Signore.

2. B. Maggioni «Date a Cesare»

Gesù ed il potere politico

Con la frase «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» Gesù afferma che bisogna riconoscere lo stato. Dunque l’autorità esiste, lo stato è da riconoscere; però bisogna dargli le sue cose, mentre le cose di Dio bisogna darle a Dio. Gesù vuol porre l’accento su: «e a Dio quello che è di Dio»: quello che è di Cesare deve essere sì dato a Cesare, ma quello che è di Dio deve essere dato a Dio. Nel dialogo con Pilato (Gv 18) Gesù riconosce di essere re, ma di un regno diverso dagli altri: un regno di verità, di debolezza, che lo porta a morire su una croce. E proprio la croce non è lo strumento di cui Gesù si serve per diventare re, bensì è il modo con cui Egli è re: esercita la sua regalità servendo gli altri, donandosi e morendo per gli altri.

3. G. Barbaglio «Ogni autorità viene da Dio»

Commento a Romani 13,1-7

In Rm 13 il bene è inteso come bene sociale. Paolo afferma che si deve essere sottomessi allo stato, ad esempio pagando le tasse, per convinzione profonda della propria coscienza, civica e personale, di uomini e di cittadini. Qui Paolo non spiega quali siano i doveri dell’autorità costituite. Quindi su aspetti quali l’esercitare il potere, l’aggressione del potere, Paolo assolutamente prescinde; non presenta minimamente una teologia dello stato o del potere. Indica unicamente i doveri dei credenti in qualità di cittadini, i doveri civici all’insegna della legittimità del potere, che Paolo sostiene. È un brano da leggere positivamente: l’appello al civismo, al pagare le tasse, con un valore di attualità, positivo e interessante anche per noi cittadini di oggi.

4. F. M. Feltri La sfida dello stato laico

Il cristiano fra politica e potere

Se per il cittadino romano Paolo lo stato ha un valore positivo, nell’Apocalisse (scritta in periodo di persecuzioni) l’impero romano è invece visto come un mostro. Nel Medio Evo e nei secoli seguenti il sovrano può essere di nuovo presentato come lo strumento di cui si serve Dio per mantenere il suo ordine sulla terra, in un mondo di peccato. Il potere del re è assoluto: criticare il re significa criticare Dio stesso. Se Lutero, nel XVI secolo, disprezza il papato assegnando ai principi un ruolo straordinario, invece il calvinismo ha un rapporto conflittuale col potere, in quanto da esso perseguitato (ed infatti i calvinisti riprendono brani dell’Apocalisse). La modernità inizia a vedere il potere non

come un dono di Dio, ma come un “contratto” col popolo. Però tale visione subito è rifiutata dalla chiesa cattolica, nella quale soltanto dal Concilio vaticano II in poi prevale l’idea di abbandonare la condanne e di affrontare il mondo in dialogo con tutti gli uomini di buona volontà.

2003 – IL MISTERO DEL MALE

IL DIAVOLO: MITO O REALTÀ

1. J.L. Ska «Il Signore chiese a Satana: ‘Da dove vieni?’» (Gb 1,7)

Satana nelle antiche scritture ebraiche

Il “satana” di cui si parla nell’AT non è quello che nel NT – e specialmente nella nostra spiritualità – è chiamato il “diavolo”. Nell’AT il “satana” è “il nemico”, “l’avversario”, “l’accusatore”, “il calunniatore”. Interessante è il libro di Giobbe, in cui il “satana” (colui che accusa Giobbe davanti a Dio) appare all’inizio del libro, ma non riappare alla fine. Perché? Perché qualcosa di essenziale è accaduto nel frattempo: l’immagine di Dio è cambiata. Infatti Giobbe all’inizio percepisce la presenza di Dio come quella di un nemico: Dio è il “satana” che lo aggredisce. Ma Giobbe scopre progressivamente un Dio che lo giustifica nel suo rifiuto dell’ingiustizia. Dio rivela a Giobbe che anch’Egli combatte contro l’ingiustizia. Ribellandosi contro una sofferenza inspiegabile, Giobbe reagisce come Dio. Anzi, è Dio stesso che

si ribella in Giobbe contro le incoerenze dell’universo. Qui avviene la riconciliazione fra Dio e Giobbe: sono dalla stessa parte. Allora non vi è più spazio per il “satana” che metteva Giobbe alla prova. Dio non è più un nemico, perché sta dalla parte di Giobbe e lo sostiene.

2. E. Manicardi «Che c’entri con noi, Gesù

Nazareno?» (Mc 1,24)

Gesù esorcista

Il tema non è il demonio, bensì Gesù che lo scaccia. Dunque esige che si parta da ciò che Gesù compie. Infatti nella Bibbia il demonio è una figura secondaria. Se, da un lato, non esiste solo il bene, ma anche una realtà di male molto forte, ben di più dell’uomo, dall’altro Gesù è una speranza antidemoniaca: si presenta (e i suoi discepoli con lui) come un liberatore, o almeno un “riduttore” dello spazio di male. Egli si mostra efficace davanti a satana nel suo ministero terreno, durante il quale inizia a vincere il demonio scacciandolo tutte le volte che lo incontra a devastare uomini. Ma è soprattutto con la sua morte che Gesù sconfigge il demonio, quando vince la tentazione di scendere dalla croce. Pertanto, se si vuole vincere il demonio, la strada è quella del bene e del costosissimo dono di sé agli altri: è questo il cuore del potere esorcistico di Gesù.

3. P. Lombardini «Resistete alle insidie del diavolo» (Ef 6,13)

Il pensiero di Paolo sul demonio

In Paolo la figura del demonio appare nel contesto dell’enigma del male. Per capire Paolo bisogna partecipare al suo stupore di fronte a Gesù che, con un amore gratuito, rinnega i propri progetti pur di adempiere la volontà divina, sapendo che non si ha una risposta razionale, ma si è invitati – alla luce della croce – a fidarsi, nonostante tutto, di Dio. Per Paolo il “diavolo” o il “Peccato” personificato è una metafora viva che aiuta a pensare il mistero insondabile della potenza sugli umani che ha il Male, che è radicato nell’uomo, il quale non cessa di peccare. Il Male e l’uomo sono indissociabili: il Male non esiste prima dell’uomo e la condizione esistenziale umana non è semplicemente un “prodotto” di un Male originario. Tuttavia l’intero messaggio morale di Paolo, centrato sulla croce e sulla risurrezione di Gesù, porta verso una fede-fiducia che non si rassegna al Male e verso una assunzione di responsabilità che scaturisce da un Dio che si dissolve in puro Amore nel Crocifisso.

4. G. Orlandini Esorcismi oggi

«Cacciate i demòni» (Mt 10,8)

Fondamentale è partire da una certezza: il satana è una creatura di Dio, così come tutti gli angeli, tutte gli esseri umani e l’intera creazione. Quindi il satana non è un altro dio, bensì è un angelo in stato di ribellione a Dio. È all’opera nel mondo con un’opera negativa: cerca di coinvolgere l’umanità nella stessa ribellione. Il satana tenta di rovinare l’umanità e, oltre a voler estromettere Dio, vuole farsi adorare come Dio. Il fatto di scacciare i demoni non è facoltativo, ma è Gesù che ha legato l’ordine di scacciare i demoni all’annuncio del Vangelo, proprio poiché il potere sui demoni è uno degli elementi che rendono credibile l’annuncio del Vangelo. Infine l’esorcismo è un “sacramentale”: è simile ad un sacramento e pertanto è un’azione della Chiesa. Perciò l’esorcismo è un fatto della comunità e deve entrare nella sua vita.

2004 – IL TEMPO CHE NOI SIAMO

1. L. Mazzinghi Il canto del tempo

Il tempo secondo il libro di Qohelet

Nella Bibbia l’eternità, ovvero il tempo di Dio, si incrocia continuamente con il tempo storico dell’uomo. Il tempo dell’uomo della Bibbia è visto sotto l’ottica del senso che esso può avere: interessa cioè la qualità del tempo, poiché c’è l’idea che Dio entra nella storia e le dà un senso. Qohelet riflette sull’unico tempo che è possibile sperimentare all’uomo, ossia sull’attimo, sul momento reale, attuale, che sta vivendo. E la critica del Qohelet («Tutto è un soffio») porta a concludere che l’uomo che vuole possedere il tempo trova nella morte la fine radicale di ogni sua illusione di profitto. Invece chi vive il tempo come dono e come mistero offerto dalle mani di Dio riscopre che il tempo ha un senso, sebbene l’uomo non lo si capisca appieno. È proprio cercando ed esplorando che il credente scopre, nella limitatezza del proprio tempo, il “mistero del tempo” di Dio.

2. M. Marcheselli Il tempo breve

Marco 13: il discorso escatologico e la vigilanza

Nel discorso escatologico Marco propone una sua lettura del tempo di fronte a chi, fanaticamente, sostiene che si è giunti alla fine del mondo e che la venuta del Signore è imminente. L’orientamento del testo non è minaccioso, bensì consolatorio. La comunità dei credenti aspetta il ritorno del Figlio dell’uomo, ma non lo attende restando inattiva. Lasciarsi determinare dalla fine – senza però poterne calcolare il quando – significa seguire attentamente gli avvenimenti del tempo, esercitando i pieni poteri affidati dal Signore, nella consapevolezza che Egli ne chiederà conto. Ai servi è affidato un potere che si ricollega direttamente all’autorità stessa di Gesù: la sua opera adesso è affidata alla comunità. Occorre vegliare e pregare. In questo discorso Marco trasmette i fondamenti di un giusto atteggiamento escatologico dei credenti, che coincide con l’atteggiamento che Gesù stesso ha assunto verso il regno di Dio, e che contempla anche la via della croce come disponibilità a lasciarsi condurre da Dio, rinunciando a determinare noi stessi dove andare.

3. S. Romanello «Rubate il tempo!»

La comprensione del tempo nella lettera agli Efesini

Nella lettera agli Efesini Paolo scrive di un «mistero» il cui fine è «realizzare la pienezza dei tempi». È un concetto di tempo inteso non come un succedersi incoordinato e caotico, ma che giunge verso un culmine. Ed è Dio che stabilisce tale culmine nella storia, che avviene in Cristo: infatti il «mistero» è «il riepilogare in Cristo tutte le cose». Allora la storia non è solamente, né tanto meno primariamente, «giorni malvagi», poiché essa è stata incontrata da Dio: è il luogo in cui è avvenuto un incontro tra gli uomini e Dio. La storia è il luogo in cui Dio ha rivelato il suo«mistero», il suo progetto salvifico, che è avvenuto. Infatti c’è una signoria effettiva di Cristo sulla storia: a lui è sottomesso tutto. Ciò significa che si affermano la vita e l’amore. Dunque il tempo ha una connotazione fortemente positiva. E ai credenti il tempo è affidato come luogo in cui essere responsabili e protagonisti, al fine di far risplendere la signoria di Cristo nella vicenda storica in cui sono inseriti.

4. L. Bettazzi Il tempo assente

Quantità o qualità del tempo

Il tempo è il fatto che, non riuscendo l’uomo a realizzarsi tutto in una volta, ha bisogno di realizzarsi successivamente. Quindi il tempo è segno di imperfezione, è la misura del movimento della realizzazione. Quando si parla del “tempo assente”, si intende quello passato; ma, soprattutto, “il tempo assente” è il tempo disimpegnato, ossia il tempo in cui si fanno le cose senza impegno. C’è poi anche il “tempo forte”, ossia il tempo che incide sull’uomo, nel quale l’uomo è. E dipende dall’uomo se il tempo è un tempo “assente” oppure se è un tempo “presente”, un tempo “forte”. Un elemento molto importante è la responsabilità: quando l’uomo si chiude nell’individualismo, soffoca la sua vera umanità. Allora “il tempo assente” è proprio il tempo chiuso nell’individualismo, mentre il tempo “forte”, il tempo “che cresce”, è il tempo della propria apertura agli altri.

2005 – NÉ MERITI NÉ OPERE

1. F. Dalla Vecchia

«Io non godo della morte del peccatore»

La giustizia e la giustificazione nell’Antico Testamento

Il punto di partenza dell’Antico Testamento è una lettura positiva della creazione, in cui tutto è ben disposto e ha una sua regolarità. D’altra parte, si nota che la creazione non è finita, bensì è un’opera da realizzare. Dunque la creazione è come un progetto, il cui punto di partenza è tutto ciò che Dio ha fatto e a cui l’uomo deve collaborare con la sua “giustizia”. Però la risposta dell’uomo non è sempre adeguata: l’essere umano si ribella e si comporta in maniera irresponsabile, mentre l’opera di Dio esige responsabilità. L’essere umano fa il male perché è libero e possiede l’arbitrio. Se da un lato ciò fa attirare sull’uomo la punizione divina, dall’altro lato Dio non si dà per vinto davanti all’uomo che si ribella a Lui ed escogita soluzioni sempre nuove per ricondurre a Sé il partner che si è smarrito. Egli vuole che la creatura torni a Lui, perché Dio vuole ricominciare con lei.

2. P. Lombardini «Non c’è nessun giusto, nemmeno uno»

La giustificazione in Paolo

Nella lettera ai Galati Paolo scrive che gli uomini sono «giustificati dalla fede di Gesù Cristo e non dalle opere della legge». Per Paolo l’Evangelo proviene dalla proclamazione del Crocifisso: l’Evangelo è proclamare che Dio è venuto incontro all’uomo definitivamente, per salvarlo attraverso la croce del Crocifisso, che Dio ha risuscitato. Nella croce si può vedere fino a che punto, per andare incontro agli uomini, Dio li ama. È ovvio che nessun uomo è “giusto”, ma è Dio che li giustifica. Per Paolo la novità decisiva della fede in Cristo è di essere l’unico prerequisito per la salvezza. Allora l’Apostolo propone un itinerario che i credenti percorrono a partire dall’accoglienza della morte e risurrezione di Gesù, e che scandisce i differenti tempi dell’esistenza cristiana.

3. F. Ferrario Consenso dopo 469 anni

La Federazione mondiale luterana e la Chiesa cattolica firmano la “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione” (Augsburg 31/10/1999)

La disputa sulla “giustificazione” nacque dalla tesi di Lutero che la salvezza dipende unicamente dalla grazia di Dio comunicata mediante la fede. Poiché tale posizione si rivelò irricevibile per la chiesa cattolica, per secoli c’è stata conflittualità, fino all’esclusione reciproca. Il superamento di una così sterile contrapposizione è cresciuto in un clima generale di nuovi rapporti tra le chiese (comunemente datato per la parte cattolica a partire dal Concilio vaticano II). I tre principali punti di discussione sono: 1. la giustificazione; 2. l’eucaristia; 3. il ministero. La “Dichiarazione

congiunta” afferma che le differenze (che pure rimangono) non hanno significato tale da dividere le chiese; infatti sostiene che, almeno sul punto della giustificazione (sul quale per secoli le chiese si sono divise dolorosamente), oggi invece le chiese possono parlare insieme.

2006 – DE SEXTO

LA SESSUALITÀ NELLA SACRA SCRITTURA

1. L. Caro «Non commettere adulterio»

La visione della Bibbia ebraica sul matrimonio

Nell’ebraismo il rapporto sessuale tra uomo e donna è considerato come il segno del vincolo che li unisce per tutta la vita nel reciproco sostegno, nel piacere, nella procreazione e nell’educazione dei figli. Il sesso non è legato solamente alla riproduzione: la normativa ebraica biblica sostiene esplicitamente che l’attività sessuale ha anche lo scopo ricavarne un piacere e di dare piacere al partner. Il piacere che deriva dall’unione sessuale è considerato legittimo, opportuno e positivo, sebbene nella vita matrimoniale non si debba abusare del sesso, poiché l’istinto dell’abuso dell’attività sessuale è assimilato all’idolatria. Dunque l’etica ebraica non raccomanda la soppressione dell’istinto, bensì la sua disciplina: esistono degli istinti e delle pulsioni che l’uomo non è tenuto a sopprimere, a relegare o ad annullare, bensì semplicemente a dominare.

2. L. Mazzinghi «Quanto sono soavi le tue carezze,

sorella mia sposa»

Il Cantico dei Cantici: la sessualità come incontro

Nel Cantico c’è il cantare la bellezza dell’altro; è un canto d’amore in cui Lui e Lei si cercano e si amano. Quella del Cantico è una visione positiva della sessualità in cui non si trova mai una qualche proibizione, ma soltanto ciò che l’Ebreo dell’epoca concepisce in relazione alla coppia. Lo sguardo dell’uomo è uno sguardo d’amore: è lo sguardo dell’amato che guarda l’amata ed esclama con gioia e con stupore: «Quanto sei bella!». Il Cantico riesce a metter insieme l’amore umano e quello divino, riesce cioè a far capire che si può amare umanamente e, allo stesso tempo,

essere inseriti in un progetto di Dio. Se da un lato è vero che eros e agàpe sono contrapponibili tra loro, dall’altro il Cantico riesce invece a fonderli in una sintesi feconda, grazie proprio alla mentalità biblica, per la quale non esiste opposizione tra spirituale e umano, poiché alla fine tutto ciò che è umano è anche sacro in quanto proveniente da Dio, se è autenticamente umano. Allora il credente non ha più paura della sessualità, poiché la vede come quel bel dono che Dio ha fatto all’uomo.

3. E. Manicardi «Così che maschio e femmina non sono più due, ma una sola carne»

L’insegnamento di Gesù e del Nuovo Testamento

Sulla coppia Gesù è un pensatore estremamente originale: la sua decisione, assolutamente inattesa, è la fedeltà all’unico patto nuziale. Nessun altro, prima di lui, ha preso così seriamente il racconto di Genesi, ossia che l’uomo è stato creato «maschio e femmina » e che soltanto insieme sono «maschio e femmina». Allora la sessualità e l’erotismo devono essere vissuti secondo quella figura che Dio ha data a tale realtà e che si basa sulla concezione che l’uomo singolo è una persona completa, ma non è completo nella natura, in quanto l’uomo esiste solamente “uomo-donna”. Paolo vive come celibe ed è consapevole che la possibilità di vivere da solo è un dono di Dio: percepisce che non è ordinario, ma che ci vuole un dono speciale del Signore per vivere senza partner sessuale. Per lui la sessualità è importante perché lo Spirito Santo è dato dentro al corpo della persona umana; l’essere umano che vive la sessualità, vive essendo lui tempio dello Spirito Santo. Allora bisogna vivere la sessualità proprio in modo da custodire il fatto che il corpo è tempio dello Spirito Santo.

4. P. K. Dal Monte «Esse sono una veste per voi e voi siete una veste per loro»

– L’amore sponsale come segno (“ayat”) di Dio nel Corano

Nella concezione islamica c’è il senso di una profonda unità tra sacro e profano, tra creazione e rivelazione, e quindi anche dell’essere umano; per ciò non si trova paura o disprezzo della sessualità. Il sessuale è una dimensione fondamentale dell’essere umano, è apertura originaria verso l’altro, che permette di ritrovarsi nel trascendere sé stessi. La sessualità è un riavvicinare a sé l’alterità. È la gioia del ritrovarsi, del superamento della solitudine, è vero accoglimento dell’altro; è la vita che si diffonde. È una forza potente che unisce uomo e donna attraverso i legami di desiderio, benevolenza e misericordia, possesso; ma anche dono di sé, generosità nel donarsi e gioia nel ricevere l’altro da sé. Però, proprio perché la sessualità possiede una valenza sociale, anzi la fonda, deve essere codificata nel suo uso reale. E il matrimonio è l’ambito in cui l’uomo e la donna realizzano meglio le dinamiche potenti e basilari che stanno alla base della loro differenziazione sessuale.

2007 – IL DENARO, L’AMORE & IL CIELO

BENI & RICCHEZZE

1. L. Maggi «Sdraiati su letti d’avorio, canterellano al suono dell’arpa» (Amos 6)

La denuncia dei Profeti

I profeti sono i predicatori della Legge, cercano di attualizzare questa parola che è stata consegnata e che rappresenta la carta costituente del popolo di Israele. Comprendono che essa è un dono ed una esigenza, segno della promessa incondizionata e gratuita, ma anche del patto esigente ed impegnativo. Allora la loro considerazione sul denaro è fortemente legata al criterio della giustizia. Pertanto, quando vedono i ricchi che accumulano, opprimendo i miseri e maltrattando i poveri, e pretendono di interpretare il loro successo in termini di benedizione da Dio, lo sguardo acuto e penetrante dei profeti denuncia l’ingiustizia e il tradimento del patto di solidarietà tra il popolo. Il problema non è il denaro, bensì è il suo errato uso, che sfocia nell’idolatria, ossia nel riporre le proprie sicurezze su qualcosa di costruito artificialmente e non in Dio.

2. M. Marcheselli «Non possiedo né oro, né argento » (Atti 3)

La Chiesa e la ricchezza negli Atti degli Apostoli

Negli “Atti degli Apostoli” Luca indica, tra le note caratteristiche della Chiesa di Gerusalemme, la koinonìa, ossia la comunione fraterna, che è quella solidarietà fraterna che trova la sua espressione più riconoscibile ed evidente nella condivisione di ciò che si possiede e del denaro. Per Luca il fatto che ogni cosa sia in comune è la manifestazione visibile di una dimensione interiore. Se, da un lato, la condivisione non è un punto di partenza, bensì un punto di arrivo, dall’altra lato l’esistenza di un livello profondo conduce ad una prassi che esprime in un modo visibile il livello intimo dell’unità del cuore e dell’anima. Il punto irrinunciabile è che, nell’adesione al Vangelo, una persona non può ritenere che ciò che possiede sia unicamente per sé e per la sua famiglia. Nella visione lucana la ricchezza non può avere una destinazione puramente privata, ma implica inevitabilmente un atteggiamento solidale. La povertà non è bella; invece la solidarietà sì.

3. D. Leoni Rabbi disse: «Fare la carità raffredda la passione per il denaro»

Racconti e detti dei chassidim

Il chassidismo è un movimento “mistico” di rinascita spirituale che si afferma in gran parte dell’Europa orientale nella prima metà del sec. XVIII. I suoi insegnamenti educano i discepoli a vivere nella gioia, ma anche nella carità e nella solidarietà, conducendo una vita tutta spesa nel fervore religioso. Nell’ebraismo i beni materiali non sono ritenuti un male in sé stessi. Essi implicano però la condivisione, che sola custodisce l’uomo dalla brama di possesso e gli permette di servire Dio nella quotidianità della sua esistenza. Intesi diversamente, i beni materiali si traducono in autosufficienza, in dimenticanza della gratuità del dono divino, in empietà del vivere. Il denaro quindi è un grave pericolo: chi lo possiede, deve porre attenzione che esso non si trasformi per lui in un laccio, capace di farlo cadere dal servizio a Dio. Se la ricchezza non può nulla, invece l’elemosina può ottenere benedizioni e grazie senza numero: libera dai peccati e addirittura è capace di salvare dalla morte, perché Dio, che è il soccorritore dei poveri, mai abbandona il povero che grida a lui.

4. L. Bettazzi «Il ricco non si salva» (Matteo 19)

La dottrina sul denaro nei documenti della chiesa contemporanea

Nell’iniziare il Concilio vaticano II, papa Giovanni XXIII ricordava che la Chiesa è sempre stata per i poveri, ma che doveva diventare la Chiesa dei poveri. Cioè: la Chiesa per i poveri è una Chiesa di brave persone, le quali aiutano i poveri – sia quelli vicini a casa che quelli lontani – i quali si sentono sempre degli ospiti nella Chiesa e dei beneficati della Chiesa. Invece devono essere loro i protagonisti della Chiesa, come lo sono stati nella Chiesa primitiva. I poveri sono il sacramento di Cristo, e la Chiesa deve prendere l’ispirazione da Cristo, il quale, essendo ricco, si è fatto povero. L’enciclica “Populorum progressio” (1967) inizia con la frase: «Il nuovo nome della pace è lo sviluppo del popoli». Dopo venti anni l’enciclica, “Sollicitudo rei socialis” (1987) afferma che il nuovo nome della pace è la solidarietà, e che la solidarietà è il nome attuale della carità. E si è cristiani soltanto se si ha la carità e nella misura in cui la si vive.

2008 – IL LUOGO SACRO

«Qadòsh, Qadòsh, Qadòsh, Adonai Tzevaòt» «Santo, Santo, Santo, il Signore delle Schiere»

1. J.L. Ska I luoghi sacri dei patriarchi

«Ad oriente di Betél Abramo costruì un altare al Signore» (Gen 12,8)

Nella storia dei Patriarchi sono presenti alcuni luoghi sacri. Infatti, già all’inizio della storia di Abramo appaiono dei santuari. Il Dio di Israele, tuttavia, non sembra aver legami particolari con i luoghi sacri, ma piuttosto con le persone, perché si definisce: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Dunque Israele lega il suo Dio ai Patriarchi e non ai luoghi sacri. In realtà, i santuari sono dei punti di partenza o dei punti di arrivo, dei punti che permettono soprattutto di tracciare un percorso. Ed è il percorso dei patriarchi che contiene il messaggio essenziale dei racconti: il Dio dei patriarchi si rivela lungo il loro cammino, perché Dio cammina con essi. Ecco allora che i veri santuari dei patriarchi sono le vie che essi hanno percorse con Dio al loro fianco.

2. L. Mazzinghi Dalla tenda dell’esodo al tempio in Sion

«Disse Davide: ‘Io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto una tenda’» (2 Sam 7,2)

La Dimora che accompagna il popolo nel deserto durante il cammino dell’esodo e nella quale è custodita l’arca dell’alleanza è un simbolo molto efficace (in quanto concreto e tangibile) per esprimere la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Tanto che è detta pure «tenda dell’incontro», ossia il luogo dove il popolo si incontra con il suo Dio. La tenda del deserto è proprio il segnodi un Dio vivente che decide di abitare in mezzo al suo popolo. Nato come cappella nel palazzo costruito dal re Salomone, il tempio di Gerusalemme è pure simbolo della presenza di Dio. Inoltre è il segno dell’elezione di Dio nei confronti di Israele: esiste uno stretto rapporto fra la scelta del tempio e l’elezione di Israele. Infine è importante ricordare che il tempio non è un valore assoluto e che, anzi, esso è funzionale a ciò che nel tempio

si celebra: il tempio è legato all’autenticità del culto e della fede di Israele. Pertanto, il Dio di Israele è presente nel tempio, ma non è legato al tempio; e quindi, anche quando il tempio sarà distrutto, la presenza divina non verrà meno in Israele.

3. Y. Redalié Il tempio vuoto

«Disse Gesù: ‘È giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv 4,21)

Nelle narrazioni evangeliche si nota una certa ambivalenza nel rapporto tra Gesù e il Tempio. Da un lato, non si vede mai Gesù  prendere parte ad un sacrificio oppure discutere sulla questione  delle carni sacrificate. Però, dall’altro lato, né il sacrificio né il sistema di riconoscimento della purificazione sono mai messi in discussione. In realtà, in Gesù è piuttosto presente un’insistenza sulla sincerità della pratica liturgica. Per lui è importante la predicazione del regno di Dio, che, in parole ed in azioni, supera e sovverte le regole del pensiero del Tempio. Con la condivisione di mensa anche coi peccatori (gente tenuta ai margini ed esclusa dai luoghi sacri), Gesù annuncia la fine, il banchetto finale atteso

dai profeti; ma lo realizza anche nella sua presenza, ponendosi in alternativa al Tempio. La condivisione è possibile con Gesù che annuncia il perdono di Dio e la sua predicazione del regno di Dio si sostituisce al Tempio e ai suoi riti.

4. M. Pesce Un culto senza luogo: la visione di Paolo

«Santo è il tempio di Dio, che siete voi» (1 Cor 3,17)

Un culto legato ad un luogo si esprime di solito in un santuario o tempio. Al contrario, un’adorazione di Dio che non ha bisogno di svolgersi in un luogo sacro darà luogo ad una religione senzatempio. Il Gesù storico propone una religiosità senza tempio, in cui la preghiera ottiene un contatto con Dio nell’interiorità dell’uomo senza alcun bisogno di legami con luoghi e oggetti. Paolo esorta «ad offrire i vostri corpi come sacrifico vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto razionale» (Rm 12,1): questo culto è razionale, poiché i credenti devono trovare all’interno della propria ragione la comprensione della volontà di Dio. Inoltre Paolo scrive «Santo è il tempio di Dio, che siete voi» (1 Cor 3,17): il tempio è il luogo in cui abita la divinità, e questo tempio è il corpo dei credenti, che Paolo definisce «i santi», poiché la santità è stata loro regalata da Dio ed è stata impressa in loro.

5. P. Bedogni Amboni, Balaustre, Colonne, D

I linguaggi dell’architettura liturgica

2009 – DIO LO VUOLE… O È SOLO UN CASO

IL CASO, IL DESTINO E LA PROVVIDENZA NEL PENSIERO BIBLICO

1. B. Salvarani Il fato greco e il fatto del Dio di Israele

«Il Signore ha scelto il più piccolo tra i popoli» (Dt 7,7)

Dietro al termine “fato” si celano, nella fase arcaica della grecità, il timore e lo sgomento che l’uomo prova dinanzi all’ignoto. Ciò che egli non conosce, rende l’uomo consapevole dei limiti posti alla sua capacità di autodeterminarsi. Tra il V e il IV secolo a.C. la tragedia greca rende onore alla libertà umana, facendo lottare il suo eroe contro lo strapotere del fato. Tuttavia, il protagonista si trova davanti ad una alternativa priva di vie d’uscita, poichéogni scelta porterà necessariamente alla rovina. Diversamente, all’origine della fede ebraica c’è il “ricordo”. È il ricordo di un“fatto”, ossia l’evento di salvezza, che crea ciò che la tradizionegreca non è riuscita a creare: la dimensione della comunità. Ciò che accomuna i due mondi dal punto di vista del fato e del fatto è un’etica del finito, è la fedeltà alla terra. Però l’etica del finitogreca è un’etica del finito naturale: l’uomo è abbandonato al fato. Invece quella ebraica è un’etica del finito creaturale: l’uomo è creatura di Dio.

2. E. Manicardi Obbedienza e libertà nell’esperienza umana di Gesù

«Sono venuto per fare la volontà del Padre mio» (Gv 6,38)

Nella mentalità odierna la relazione fra obbedienza e libertà ècomplessa, in quanto obbedienza e libertà siano vissute in contrasto: chi è libero non deve obbedienza a nessuno! Il termine “obbedienza” deriva dal latino “ascoltare”: l’obbedienza è un ”ascoltare sottomesso”. Invece la libertà è la reale espansione della persona. La novità cristiana è che il fare la volontà di Dio – alla quale Gesù (vero Dio, ma anche vero uomo) è chiamato ad obbedire – è lo spazio inatteso a cui è invitata la natura umana. Tanto che l’obbedienza a Dio fino alla morte è vissuta da Gesù come libertà personale suprema. L’obbedienza di Gesù suggerisce che si può diventare liberi in quanto illuminati da una parola che mostra un orizzonte più grande, proprio come l’obbedienza al Padre ha aperto a Gesù un orizzonte più grande di amore. La volontà di Dio è una nuova creazione dentro alla creazione, che è presentata da Dio agli uomini per amore. Dunque è solamente nella libertà per entrare in questo spazio (che è la volontà di Dio) che l’uomo può pienamente espandersi.

3. R. Penna Predestinati alla salvezza, nessuno escluso!

«Siamo stati scelti e predestinati ad essere figli di Dio» (Ef 1,5)

Nell’inno che si trova in apertura della lettera agli Efesini si legge che «Dio ci ha scelti, predestinandoci a essere suoi figli adottivi ». Dunque si tratta di una predestinazione assolutamente ed esclusivamente positiva. Un’affermazione del genere vuole sottolineare che l’identità cristiana non è di origine endogena, ovvero che essere cristiano non dipende dalla persona in ultima istanza, bensì dipende da un progetto salvifico che ha la sua origine in Dio, che è Padre con una paternità universale rivolta a tutti gli uomini. E tutto ciò avviene in Cristo, perché è lui il mezzo che rende che rende possibile questa filiazione adottiva. In Cristo risorto c’è speranza di risurrezione e di salvezza per tutti gli uomini, poiché Dio Padre è all’origine, è al centro, ed è anche al termine di tutto il processo della creazione e della storia

4. R. Di Marzio La sfera e la croce

– Maghi, indovini, cartomanti: il destino à la carte

La nostra epoca è caratterizzata dallo sviluppo e dalla diffusione del’occultismo e dell’esoterismo. L’esperienza magica non è tanto un’esperienza del divino o del sacro, bensì è un’esperienza del potere, dove l’uomo manipola il sacro e lo mette al suo servizio. Quindi, mentre la religione è una manifestazione del sacro, la magia è una manifestazione del potere che si serve del sacro. Vi sono diversi tipi di magia (“pratica”, “gnostica”, “evocatoria”, tutte volte ad acquisire conoscenza e potere; la “magia della vita”, addirittura vuol vincere la morte e assicurare l’immortalità), così come esistono vari tipi di spiritismo (comunicare con gli spiriti dei defunti). La posizione della Chiesa cattolica è duplice: da un lato, vi è il netto rifiuto di questi fenomeni; dall’altro lato, sta la comprensione dei motivi per cui tante persone, anche cattoliche, vi si rivolgono e di quali aiuti fornire loro.

2010 – «PARLAMI !» – LA PREGHIERA DIFFICILE

1. L. Mazzinghi La contestazione di Giobbe

Il problema posto dal libro di Giobbe è: come essere credenti pure nel dolore? È possibile credere in Dio anche quando la realtà sembra smentire la fede? Se si pensa alla preghiera come ad un rapporto dell’uomo col suo Dio, in Giobbe si trovano dei testi che possono essere considerati come preghiere. In essi il protagonista sofferente si rivolge direttamente a Dio col “tu”, a differenza degli amici che difendono Dio, ma non Gli rivolgono mai la parola. Invece Giobbe è l’uomo che pone domande a Dio e che da Lui attende una risposta. Non maledice Dio, ma Lo interpella con ogni linguaggio possibile (anche quello che sembra rasentare la bestemmia!). È il credente che sa passare dallo scandalo all’adorazione, ma che non mette mai in questione l’esistenza di Dio e la possibilità di un suo rapporto con l’uomo. In tutto ciò, Giobbe è un’anticipazione del credente in Cristo che, nelle prove della propria vita, prolunga e conferma la sconfitta che Cristo, nella sua morte e resurrezione, ha fatto di satana.

2. T. Lorenzin Pregare imprecando

I Salmi Imprecatori

Con ogni probabilità, nel I secolo a.C. i Salmi erano il libro di preghiera delle piccole comunità e della famiglia. In essi si trovano spesso le imprecazioni dei “poveri”, ovvero le persone che subiscono ingiustizie. Per capire i cosiddetti “Salmi imprecatori”, bisogna inserirli nel quadro della Pasqua, ossia della schiavitù patita per colpa del faraone ingiusto, ma anche della liberazione operata da Dio, l’unico salvatore e l’unico giusto. La presenza di Dio: è questa la risposta alle sofferenze e alle ingiustizie dell’orante, perché soltanto Egli è in grado di riportare la giustizia e l’ordine sovvertiti dai potenti della terra. Ecco allora che anche le espressioni forti e talora terribili che si leggono in questi salmi sono, in realtà, invocazioni di giustizia rivolte a Dio, affinché il suo regno si diffonda sulla terra minacciata dal caos e dalla violenza degli empi.

3. B. Maggioni La supplica inascoltata di Gesù

La preghiera di Gesù è una preghiera molto umana. E il fatto che Gesù preghi è il segno della sua piena umanità. Nella sua pur piena giornata Gesù trova sempre il tempo di pregare; inoltre insegna pregare. Tuttavia i vangeli mostrano un Gesù che prega sempre da solo, mai coi discepoli. Ciò perché il rapporto con Dio è personale e perché la solitudine dell’uomo può essere davvero riempita unicamente da Dio. Nella preghiera Gesù trova la forza e la chiarezza della propria vita. In essa trova la nitidezza della sua scelta, tanto che nel Getsèmani porrà una domanda che non lo allontanerà dalla croce, ma gliela farà vivere. Infatti è nella preghiera che Gesù trova la forza e il coraggio di affrontare la croce. È questo il miracolo della preghiera di Gesù come della preghiera dell’uomo. E se nel Getsèmani il Padre pare stare in silenzio, invece Egli parla in un modo diverso: non liberando Gesù dalla morte, bensì facendogli attraversare con più speranza il momento difficile.

4. R. Fabris La spina nella carne

– La richiesta di Paolo in 2 Cor 12,7-10

Alcune preghiere di richiesta di Paolo sono state esaudite, mentre altre no. In realtà, la preghiera viene sempre e comunque esaudita da Dio, anche quando non sembra. Infatti, quando si sta davanti a Dio e ci si lascia trasformare dalla relazione profonda e vitale con Dio, la preghiera è esaudita, poiché lo scopo della preghiera è conoscere ed accogliere la volontà di Dio nella nostra vita. La preghiera ottiene di “sintonizzarsi” con la volontà di Dio ed essere trasformati in essa. Per Paolo tale volontà di Dio è la conformità a Gesù Cristo crocifisso. Egli vive l’esperienza della malattia e della debolezza psicofisica (fisica, morale, sociale: la «spina nella carne» è il simbolo di tutte le fragilità umane) nella prospettiva della fede cristiana, che riconosce e accoglie il volto di Dio in Gesù Cristo crocifisso.

2011 – VIOLENZA nella Bibbia

1. P. Bovati «Sterminerai ogni essere vivente» (Gs 10,39)

– La conquista della terra di Canaan

Il libro di Giosuè appartiene al genere dei racconti mitici, in cui prevale il carattere di invenzione di personaggi ed eventi, allo scopo di fondare l’esistere del popolo credente. Il giudizio sui Cananei è sempre negativo: sono malvagi e gravemente colpevoli. Da qui nasce la categoria interpretativa della giustizia divina che si realizza storicamente nella punizione dei colpevoli. Dio non è indifferente al manifestarsi del male etico e religioso; proprio perché è un Dio giusto che ama la giustizia, Egli interviene nella storia umana per castigare i colpevoli e salvare le vittime. In Giosuè Israele è lo strumento dell’azione di giustizia condotta dal Signore contro i Cananei, scelto perché è il popolo più piccolo sulla faccia della terra, così che la sua campagna trionfale venga attribuita non alla prepotenza delle armi, ma al potere giudicante di Dio. Ciò spiega perché il libro di Giosuè introduce eventi prodigiosi a favore di Israele e contro i Cananei,

con vittorie mirabolanti, impossibili quanto a veridicità storica, ma vere quanto al senso della storia che intendono proporre alla fede del credente.

2. G. Borgonovo «Distruggi quei peccatori

dei tuoi nemici» (1 Sam 15,18)

Le guerre del re Saul

In ogni sua pagina la Bibbia chiede la collaborazione di un lettore attento per essere compresa. La spiegazione dei brani in cui appare la violenza deve partire dal tentativo di ricollocare tali espressioni nel mondo culturale e spirituale degli antichi scrittori e nelle loro tradizioni religiose, sociali e poetiche. Allora si troverà, non senza sorpresa, che queste pagine – a prima vista sconcertanti – in realtà rilevano una tradizione molto ricca e rivelano i contenuti di una tradizione che possiede un forte anelito di moralità e di religiosità Dunque bisogna evitare di mettere a confronto questi racconti tout court con alcuni passi evangelici. Piuttosto, queste pagine devono essere lette e gustate nella loro versione di tragedia umana, con l’intelligenza di un lettore che conosce il resto della Scrittura. Pertanto esse non risultano essere una conferma dell’uomo violento, che ciascuno cova in sé, ma solamente una provocazione: “Tu da che parte stai”?

3. E. Manicardi «Non darò nessun segno ad una generazione malvagia e adultera» (Mt 16,4)

Le parole violente sulla bocca di Gesù

Le parole “forti” di Gesù sono da comprendere come dette da uno che subisce violenza. Tutta la questione delle “parole violente” di Gesù va collocata nel quadro dell’esperienza di Gesù: di fatto egli subisce violenza nella sua vita e, soprattutto, nella sua morte. Allo stesso tempo le parole “forti” di Gesù sono anche da comprendere come dette da uno che reagisce alla violenza e che, nella sua prassi e nel suo insegnamento, si è opposto all’uso della violenza. La modalità di Gesù è dialogica (ad esempio l’uso delle parabole). Ma il dialogico comporta il tentativo di rendere efficace il proprio punto di vista, pur senza giungere alla costrizione. Egli usa un linguaggio che vuole ottenere un effetto nell’intelligenza

e nel cuore dell’interlocutore. Dunque Gesù è immune sia alla violenza della bocca che alla violenza delle mani, ma con le sue parole “forti” vuole ricordare sempre ad ogni persona che Dio è serio e che la vita dell’uomo è altrettanto seria.

4. D. Gianotti Lo scandalo di un Dio violento

– Primo e Nuovo Testamento: lo stesso Padre

Da subito le prime comunità cristiane, leggendo i testi della Scrittura (quello che per noi è il Primo Testamento), raggiungono una convinzione di fondo: le Scritture conducono a Cristo. Ma nasce pure la domanda: il Dio misericordioso che Gesù Cristo annuncia è veramente lo stesso Dio di Israele, che spesso appare come un Dio severo e duro, persino violento? Nel fronteggiare eresie come quella marcionita, che sostengono la presenza di due divinità distinte, i Padri fissano dei punti irrinunciabili, quali il canone dei libri ispirati, il principio dell’unità dei due Testamenti, la convinzione della pienezza in Cristo delle Scritture. E combattono le eresie, individuando piste di comprensione del progetto salvifico di Dio, dove tutto è sulla strada per arrivare a Gesù Cristo e scoprire in lui la rivelazione piena del volto di Dio.

2012 – A CHE ORA È LA FINE DEL MONDO?

1. R. Virgili «Le quattro grandi bestie salivano dal

mare» (Dn7,2)

– Le apocalissi nel Primo Testamento

2. G. Biguzzi Alla fine della storia ci sarà

Gerusalemme (Ap 21,1-2)

– L’Apocalisse di Giovanni

3. R. Fabris «Alla voce dell’arcangelo e al suono

della tromba…» (1 Ts 4,16)

– Le apocalissi nel Nuovo Testamento

4. S. Carbone «Vedremo soltanto una sfera di fuoco

» (Nom)

– I segni già presenti della fine

• Don Daniele Gianotti (Reggio Emilia)
e il moderatore Francesco Manicardi

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