Il cinema, arte sacra?

di Dario D’Incerti

Il problema della rappresentazione del sacro ha attraversato da sempre la storia delle espressioni artistiche. Se è vero che la dimensione religiosa dell’esistenza è nata contemporaneamente alla civilizzazione, è altrettanto evidente che la rappresentabilità di questa forma di esperienza umana è stata più volte oggetto di discussione. Da questo punto di vista il Cristianesimo ha offerto nel corso della sua storia bi-millenaria le situazioni più paradigmatiche. Basti pensare a come è mutata nei secoli la forma di rappresentazione della figura del Cristo o a come le immagini sacre siano state di volta in volta esaltate o condannate (fu addirittura convocato un Concilio – Nicea, 787 – per deliberare sul culto delle immagini) e ancora oggi vi siano differenze sostanziali, ad esempio, fra

la ricca tradizione iconografica greco-ortodossa e quella più sobria e rarefatta delle chiese riformate nord europee. Per un lungo periodo di tempo, la storia dell’arte ha quasi coinciso con la storia dell’arte sacra, finché la fotografia e il cinema, nate tra la metà e la fine dell’800, hanno creato ulteriore scompiglio mettendo per la prima volta gli artisti in condizioni di “imitare” la realtà in modo “più vero del vero” e di pensare alla rappresentazione non solo visibile ma anche realistica di un Dio invisibile. Il cinema in particolare ha colto queste opportunità fin dalle origini e già nel 1898, ad appena tre anni dall’invenzione dei Lumière, si potevano contare ben tre produzioni cinematografiche aventi come soggetto la Passione di Cristo e, ad oggi, la stessa figura di Gesù compare in più di 350 film. Ma accanto alla rappresentazione diretta di figure e temi di carattere religioso, il cinema ha altrettanto spesso affrontato la trascendenza in forma velata, nascosta, metaforica. Ed è a partire da queste considerazioni che il C.I.B. ha più volte aperto, negli anni, una finestra sul cinema, considerato come luogo di transito dei significati sociali e specchio della sensibilità umana, anche religiosa. Risale all’aprile del 1989 il primo ciclo di quattro proiezioni

organizzato dal C.I.B., chiamato – non a caso – “Di nascosto”, come a voler sottolineare il carattere metaforico dei film presentati. Il primo film, uno dei capolavori di Francis Ford Coppola, e cioè Rusty il selvaggio (1983), è una storia apparentemente adolescenziale, sulla scia delle varie “gioventù bruciate” di cui è ricco il cinema del dopoguerra. Ma in realtà è un’opera che nasconde temi ben più profondi, tra cui quello universale della presenza del Male e della redenzione; in particolare, nella figura di Motorcycle Boy, interpretato magistralmente da un Mickey Rourke allora all’apice della carriera, si può vedere in filigrana la figura stessa del Cristo, come donatore di vita, di libertà e di salvezza. Il secondo film del ciclo, Sinfonia d’autunno (Ingmar Bergman, 1978) analizza con la precisione di un bisturi uno dei sentimenti teoricamente più nobili dell’essere umano, l’amore filiale, e l’affronta con il pessimismo conflittuale e cupo di cui Bergman era intriso, soprattutto nella parte centrale della sua carriera. Nell’incapacità di amare e di amarsi di cui soffrono i personaggi bergmaniani, si può cogliere la visione disperata di un’umanità che, priva della presenza di un dio compassionevole e benevolo, non può che precipitare in un vortice di distruzione reciproca. Anche Sotto il sole di Satana (M. Pialat, 1987) racconta, in modo spesso

verboso e diseguale, la presenza del Maligno nel mondo, una presenza a cui solo si può opporre la carità, che diventa così uno strumento non solo di redenzione ma anche di conoscenza. Alle spalle del film – che fu premiato a Cannes fra le contestazioni e non fu mai distribuito al cinema in Italia – il libro di George Bernanos, scrittore imprescindibile nel panorama mondiale della letteratura di ispirazione cristiana. A conclusione del ciclo, una delle pietre miliari del cinema non solo italiano, e cioè La dolce vita (F. Fellini, 1960): opera gigantesca di un gigante della cinematografia di tutti i tempi, fonte di ispirazione di generazioni di cineasti a venire, il film fu al centro di violente proteste che videro – ahinoi – in prima fila anche alti rappresentanti del clero cattolico. Film attraversato, tuttavia, da un’ansia di verità, di autenticità, di ricerca di valori che la società descritta impietosamente dal regista riminese pare aver smarrito irreparabilmente. Il vagare quasi sempre notturno del protagonista esprime l’idea di una vita priva di punti di riferimento solidi, una vita che

è solo ironicamente “dolce”, ma che in realtà nasconde il vuoto e la disperazione. Ci sarà però nel finale, finalmente, un’alba (metafora della luce del Cristo che squarcia le tenebre) nella quale la Grazia, impersonata dalla figura di Paolina che chiama Marcello al di là di un fosso che li separa,

sorride inascoltata ma non per questo meno presente. Come a dire: “Tu mi rifiuti, ma io sono e sarò sempre qua, ad aspettarti sorridente”. Questa lettura del film, che smontò le proteste dei benpensanti, la si deve ad un acuto critico e studioso di cinema, il gesuita padre Nazareno Taddei, che per aver difeso il film si trovò a dover pagare un prezzo altissimo e fu a lungo osteggiato dalla stessa gerarchia dell’Ordine. L’anno successivo, 1990, il secondo ciclo “Di nascosto”ha presentato altri quattro titoli, il primo dei quali, Lavia Lattea (L. Buñuel, 1969) è certamente uno degli atti d’accusa cinematografici più violenti che la Chiesa abbiadovuto affrontare. Un atto d’accusa che nasconde però una profonda nostalgia: per quanto egli voglia far credere,Buñuel – figlio della cattolicissima Spagna – non contesta la Chiesa, bensì contesta certa Chiesa distorta, poco cristiana,

formalista. Una Chiesa che lui ha conosciuto e che, bisogna ammettere, spesso è così1. Nel raccontare il pellegrinaggio a Santiago De Compostela, il regista passa in rassegna secoli di storture, inganni e tradimenti perpetrati dalle gerarchie ecclesiali a danno dei semplici e dei poveri. Ancora una volta il cinema di qualità, lungi dal voler proporre soluzioni facili (o addirittura, come si diceva una volta, “edificanti”), diventa pretesto per scuotere le coscienze intorpidite di tanti cattolici di facciata e apre spazi di discussione. In una rassegna dedicata alle rappresentazioni metaforiche dell’esperienza religiosa non potevano mancare i nomi di Robert Bresson e di Andreij Tarkovski. Del primo viene presentato Au hasard, Balthasar (1966) e del secondo, l’ultimo film realizzato prima della sua prematura scomparsa e cioè Sacrificio (1986). La parabola dell’asino Balthasar rimane una delle rappresentazioni più lucide e strazianti della presenza del Male nel mondo. L’idea di utilizzare lo sguardo di un animale – uno sguardo per definizione impassibile, obiettivo – per raccontare la diabolica capacità degli esseri umani di compiere azioni spregevoli va annoverata fra i lampi di genio che ogni tanto il cinema ci regala. Sacrificio, invece, è il testamento per immagini di un regista fra i maggiori del XX secolo, autore di pochi film, 7 in tutto, ma capace di cogliere, pur partendo da una posizione apparentemente periferica – e svantaggiata dal clima di controllo paranoico che il regime sovietico esercitava sui propri artisti – alcuni dei nodi fondamentali della crisi della razionalità del mondo contemporaneo. Nel suo ultimo capolavoro, l’incombere di una catastrofe nucleare è il pretesto per esprimere la perdita di senso che ha colpito gli esseri umani e per riconoscere il ruolo della rinuncia e dello svuotamento – quasi una kenosis paolina – come ultima risorsa per riconquistare una parvenza di umanità. L’ultimo film di questo secondo ciclo, La strada (F. Fellini, 1954), ci riporta ad un altro dei vertici della produzione del maestro riminese e della cinematografia di tutti i tempi. Dietro le vicende di Gelsomina e Zampanò si intravede ancora una volta il mistero della Grazia, che alberga anche nelle creature apparentemente più insignificanti

o addirittura in quelle più mostruose. Nel 1991 il C.I.B. prende a tema della rassegna l’opera di un regista fra i più controversi e complessi del cinema italiano, e cioè Pierpaolo Pasolini. Il cinema pasoliniano, così carico di richiami letterari e figurativi, così “classico” nella forma e quasi “arcaico” nel modi linguistici, costituisce indubbiamente un capitolo a sé stante nella cinematografia italiana. Anch’egli, come e più di Fellini (di cui fu all’inizio collaboratore), era stato spesso oggetto di accuse e contestazioni violente da parte di certa critica cattolica. Ma alla fine degli anni Ottanta si era finalmente cominciato anche in campo ecclesiale a rivedere le posizioni più oscurantiste e a riconoscere nell’opera del regista quegli afflati di spiritualità che ne hanno fatto il cantore degli ultimi e dei diseredati. L’avvio della rassegna fu dedicato alla celebre trasposizione evangelica pasoliniana, Il Vangelo secondo Matteo (1964), opera che si vuole ispirata dalla lettura della Sacra Scrittura che il regista fece quasi casualmente durante un soggiorno presso la Cittadella di Assisi. Significativo il fatto che il film sia dedicato a Papa Giovanni XXIII. Il ciclo proseguì con un documentario poco noto, Sopralluoghi in Palestina, che Pasolini realizzò proprio in preparazione del Vangelo. È documento oltremodo interessante, perché sentiamo dalla viva voce del regista quali possono essere le problematiche che sorgono nell’intraprendere un’avventura difficile e delicata come poteva essere una versione filmata del Vangelo. Com’è noto, la produzione del film si trasferì poi in Basilicata, ritenendo il regista che il territorio israeliano fosse ormai irrimediabilmente antropizzato e incapace di restituire il senso dell’autenticità della Palestina cristiana. Cosa che invece fu possibile realizzare nella brulla e pietrosa campagna lucana di quegli anni. Il terzo titolo fu Uccellacci e uccellini (1966), un film particolarmente caro al regista perché gli consentì di strappare Totò al trito ruolo di comico d’avanspettacolo e offrirgli finalmente una parte degna della sua grandezza di attore. Il lungo viaggio che i due frati francescani, Ciccillo e Ninetto (l’esordiente Ninetto Davoli) compiono, accompagnati da un petulante corvo parlante (che finirà cotto e mangiato), è contrassegnato da momenti di intima poeticità, dove realismo e onirismo si fondono in maniera sublime. Un vertice che Pasolini non raggiungerà mai più, in tutta la sua carriera. La conclusione dei quattro film della rassegna fu affidata ad uno dei film più enigmatici e scabrosi della filmografia pasoliniana e cioè Teorema (1968). Opera controversa, attaccata per oscenità da una parte della Chiesa cattolica (mentre l’ala più progressista gli attribuì addirittura il premio O.C.I.C., Office catholique international du cinèma), dove però non si fatica a scorgere nell’inquietante personaggio che si insinua nella famiglia borghese, squassandola fino alle fondamenta, un chiaro richiamo alla figura del Cristo, un Cristo visto però soprattutto come pietra di scandalo, lontano dall’iconografia rassicurante e “buonista” allora in voga. Dall’anno successivo, le proiezioni seguiranno i temi di volta in volta scelti per le conferenza annuali. A fine 1992, in preparazione del ciclo che si svolgerà poi nel gennaio ’93, il tema scelto è quello della giustizia. La rassegna, dal titolo “Fotogrammi sulla giustizia”, prende le mosse dall’idea che la “giustizia”, in una prospettiva cristiana, assume un valore che va oltre l’aspetto giuridico. Il cammino che questo concetto compie all’interno del percorso biblico è infatti uno dei paradigmi etici della storia della

civiltà occidentale: dalla giustizia/vendetta alla giustizia/ misericordia, dai dieci comandamenti al comandamento dell’amore. Il primo film, La parola ai giurati (S. Lumet, 1957), è uno dei classici del cinema giudiziaria americano, capostipite di una generazione di drammi ambientati nei tribunali, in cui uno straordinario Henry Fonda convince pian piano 11 riluttanti giurati a cambiare una sentenza che pareva già scritta. Il secondo film, Cane di paglia (S. Peckinpah, 1971), è una truce e pessimistica parabola sul desiderio di vendetta dell’uomo ingiustamente perseguitato e vittima di violenza; un film che quando uscì fu accusato di mostrare una brutalità primordiale, che pareva smentire secoli di presunte conquiste di civilizzazione. Di nuovo Sidney Lumet con Il verdetto (1982), una storia di riscatto e di pietas che mette sotto accusa l’istituzione ecclesiale americana, colpevole di aver perpetrato e nascosto errori compiuti da medici in una clinica di proprietà della curia di Boston. Il quarto film del ciclo, Campo Thiaroye (S. Ousmane, 1987), è una vibrante denuncia civile della brutalità del colonialismo europeo; con finale triste, in linea con lo stoico spirito delle popolazioni nere africane, consapevoli che il loro destino di sfruttamento da parte di

popoli più avanzati e forti forse non potrà mai cambiare. La rassegna si concluse con Music Box (C. Costa-Gavras, 1989), dramma incentrato sulla figura di un ex criminale nazista che viene scoperto dopo anni di vita tranquilla e difeso dalla figlia avvocato. Quest’ultima, naturalmente incline a credere all’innocenza del padre, dovrà ricredersi in un finale ricco di tensione. Dopo alcuni anni di pausa, i cicli di proiezione del C.I.B., ripresero nel 2006, in forma più breve, sempre seguendo i temi annualmente proposti. Quell’anno il tema è quello della “sessualità” e le proiezioni sono solo

due. La prima riguarda un film, Una relazione privata (F. Fonteyne, 1999), il cui titolo originale, Une liaison pornographique, induce qualcuno ad accusare addirittura il C.I.B. di propalare oscenità. In realtà il film va esattamente nella direzione opposta, sostenendo la tesi che non è possibile scindere il piano sessuale delle relazioni uomo/ donna da quello degli affetti e dei sentimenti. Il secondo titolo, Terra promessa (A. Gitai, 2004) è un violento atto d’accusa nei confronti della prostituzione, di chi la organizza e la sfrutta sulla base della presunta inevitabilità del fenomeno, ma anche nei confronti di chi la alimenta consumandola irresponsabilmente. Nel 2007, trattando di “Denaro, beni e ricchezze”, la scelta cade su due film molto lontani tra loro per epoca e provenienza, ma accomunati da un impellente bisogno di aderire ad un imperativo morale: la denuncia del denaro come motore indecente della società contemporanea. L’argent (1983) è l’ultimo film realizzato in vita da Robert Bresson in cui, fin tal titolo, il protagonista è appunto il denaro; denaro a cui si accompagna il possesso, la capacità di comprare ad ogni costo e, cosa più importante, l’esclusione di qualsiasi comportamento morale. Il tutto realizzato con la consueta visione lucidamente antispettacolare del grande maestro francese. Il secondo titolo del breve ciclo è Piccoli affari sporchi di Stephen Frears (2002), un film teso e disperato in cui il regista inglese è abile nel costruire intorno a temi scomodi, quali l’immigrazione clandestina e il lavoro nero, una storia romanzata al punto giusto che coinvolge lo spettatore rendendolo partecipe del dramma che nasce da queste problematiche. Ciò che ci viene mostrato è un mondo di traffici clandestini di organi, popolato da poveri disperati che si mettono nelle mani di persone senza scrupoli disposti a tutto per i soldi. Dopo un anno di pausa, il 2009 vede come tema “Il caso, il destino e la provvidenza”. Ciò consente di presentare – finalmente – un film di Krzystof Kiesloswki, Destino cieco (1981). Il regista polacco è un altro dei grandi “moralisti” del cinema contemporaneo e qui mette in scena proprio il caso. Caso e non destino. Il titolo originale – Przypadek, ossia proprio «Il caso» – nella traduzione italiana viene infatti snaturato. La parola destino suppone una qualche finalità, una qualche “regia”. Insomma, suppone qualcuno o qualcosa che preordini un significato agli accadimenti e alle vite. La parola caso, invece, rimanda a una radicale mancanza di “regia”. O meglio, rimanda alla “regia” più crudele e insieme più innocente, che è, appunto, il caso. Il secondo film, il celebre Sliding Doors (P. Howitt, 1998) è di fatto ispirato al primo, almeno nello spunto iniziale. Anche qui è di nuovo il caso a dettar legge nelle vicende umane. La differenza, oltre che in una maggior dose di spettacolarità (siamo pur sempre in una produzione hollywoodiana), è che qui le due vicende si alternano, si sfiorano, in un delicato gioco di invisibili e sottili meccanismi a muovere i fili di una marionetta indifesa, impotente di fronte agli imprevisti dettati dal fato.

1 Cfr.: N. Taddei “La Chiesa contestata” ediz. C.I.S.C.S.

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