Esegesi Biblica e lettura credente

1 di Luca Mazzinghi

Questa mia conferenza serve, in realtà, a introdurre un ciclo di incontri e di lezioni dedicati al libro di Giobbe e sembra pertanto un po’ fuori tema.2 Chi tuttavia aprisse Giobbe per la prima volta, senza un’adeguata preparazione biblica, rimarrebbe senz’altro molto sorpreso, una volta iniziatane la lettura. Il narratore, infatti, proprio all’inizio del racconto, nei primi due capitoli del libro, presenta uno strano Dio a colloquio con ancor più strani personaggi celesti, i «figli di Dio». Uno questi, il satana (il lettore cristiano penserà subito, quasi naturalmente, al diavolo), ha il compito di mettere in dubbio l’autenticità della fede del pio Giobbe. Giobbe, uomo ricco e felice, molto religioso, viene messo alla prova con quattro terribili disgrazie, di fronte alle quali non si ribella, ma si rimette eroicamente alla volontà di Dio. Un Dio che tuttavia, in un modo davvero inatteso, a partire dal capitolo terzo – dove tra l’altro dalla narrazione in prosa si passa a quella in poesia – Giobbe inizia a contestare con una violenza crescente che spesso scandalizza il lettore moderno. In questo dibattito tra Giobbe e Dio comprendiamo come la Scrittura presenti aspetti di reale difficoltà e persino di vera e propria estraneità rispetto ai lettori contemporanei. Uno di questi aspetti è la violenza di Dio; Giobbe accusa Dio di violenza gratuita, persino di mettersi a ridere di fronte al dolore degli innocenti (cf. il c. 9). La violenza di Dio: si tratta in realtà di un tema non raro nelle Scritture, spesso passato sotto silenzio dai predicatori. Ma è davvero possibile accettare la visione biblica di un Dio violento, che uccide senza pietà e senza ragione? Come leggere questi testi, se non vogliamo trasformarci in nuovi crociati che intendono difendere la croce con la spada? Se poi nell’antichità il racconto che apre il libro di Giobbe poteva essere preso per un evento realmente accaduto – e tuttavia ciò non spiega ancora la contraddizione esistente tra il Giobbe paziente e quello ribelle – il lettore odierno fa fatica; come può esistere infatti un Dio circondato da una corte celeste, una divinità che complotta con un ambiguo funzionario, il satana, giocando sulla pelle degli uomini? Appare evidente che una retta interpretazione del testo biblico è assolutamente necessaria per evitare letture ingenue e fuorvianti. Serve un attento lavoro di comprensione che aiuti il lettore a entrare nel testo, eliminandone le difficoltà, specialmente quelle dovute alla distanza cronologica con il testo in questione. In altre parole, è indispensabile un’esegesi del testo: è necessario perciò chiedersi: che cosa dice quel testo? E, in un secondo momento, che cosa dice quel testo a noi? La Bibbia stessa richiede questo lavoro di interpretazione: il Vangelo di Luca, per fare un esempio celebre, ci presenta la prima comparsa pubblica di Gesù nel contesto di una spiegazione liturgica delle Scritture (cf. Lc 4): nella sinagoga di Cafarnao, Gesù interpreta e attualizza, riferendolo a sé stesso, il brano di Is 61. Sempre il libro di Isaia è ciò che sta leggendo l’eunuco sul suo carro, in At 8, quando Filippo gli chiede: «Capisci quello che stai leggendo? », ed egli risponde: «Come posso capire, se nessuno me lo spiega?». E Filippo assume il ruolo di “esegeta”, spiegando il testo isaiano e rendendolo attuale per l’eunuco che lo sta ascoltando alla luce della persona di Cristo. Da questi esempi si comprende, tuttavia, che l’esegesi biblica risponde a un compito particolare: non solo spiegare il senso di un testo, ma far emergere quella che per il credente è la Parola di Dio in esso contenuta. È quest’ultimo aspetto che crea il problema di cui ci vogliamo occupare: quale rapporto esiste tra la semplice interpretazione del testo biblico e la fede che in esso è racchiusa la Parola di Dio? 2. L’intera Bibbia attesta, a vari livelli, la presenza di un vero e proprio lavoro esegetico condotto sui testi già esistenti, secondo i metodi del tempo. Paolo, ad esempio, rilegge le pagine della Bibbia d’Israele utilizzando gli stessi metodi dei rabbini del suo tempo, pur senza mai perdere la convinzione profonda che le Scritture sono Parola di Dio e che Cristo ne è la chiave d’accesso. Il cristianesimo antico sapeva molto bene che la Scrittura richiede di essere interpretata e che tale interpretazione richiede in ogni caso un metodo. Scrive Agostino nel de doctrina christiana che «tutto lo studio delle Scritture si basa su due cose: il modo di trovare ciò che si deve capire [noi diremmo: il lavoro esegetico] e il modo di esporre ciò che si è capito [noi diremmo: la attualizzazione del testo biblico]».3 Per molto tempo, e già prima di Paolo con l’ebreo Filone di Alessandria, sembrò che l’esegesi delle Scritture potesse servirsi senza troppi problemi del metodo allegorico già utilizzato in alcuni ambiti della cultura greca (ad esempio, per spiegare le difficoltà dei poemi omerici). È ben noto come questo è il modo con cui Origene cerca di sfuggire alle difficoltà di interpretazione della Bibbia, di fronte alle obiezioni del pagano Celso. Celso, un filosofo pagano, compone verso il 180 d.C. il suo Vero discorso, attaccando frontalmente la Bibbia

ebraico-cristiana: «I giudei, rincantucciati in un angolo della Palestina, senza mai aver sentito dire che queste cose erano state cantate da Esiodo e da mille autori ispirati, – scrive Celso – composero una storia del tutto inverosimile e veramente rozza: un uomo modellato dalle mani di Dio che ne riceve il soffio; una donna tratta dal suo costato, dei comandamenti di Dio, un serpente che si ribella contro di essi e il serpente vittorioso delle prescrizioni di Dio. Racconti da donnicciola, in cui l’empietà maggiore è questa fantasia che fa Dio tanto debole fin dall’origine da non renderlo neanche capace di convincere il solo uomo che ha creato!».4 Celso, senza forse esserne del tutto consapevole, pone un problema molto serio: come poter ragionevolmente accettare i testi delle Scritture che troppo spesso appaiono inverosimili? La risposta di Origene, tutta centrata sull’interpretazione allegorica, non va vista come un facile tentativo di fuga da questi problemi; lo scopo principale di Origene è piuttosto un altro: quello di trarre dalle Scritture un senso utile per il lettore cristiano. Al di là del metodo utilizzato, questo è dunque l’obiettivo di ogni lavoro esegetico, del quale del resto Origene è un maestro. Eppure nelle critiche di Celso c’è ancora qualcosa che dev’essere osservato: Celso, da buon filosofo greco, si scandalizza della debolezza del Dio biblico. Proprio qui sta invece, come più avanti vedremo, la forza dirompente delle Scritture ebraiche e cristiane, ovvero l’annuncio di un Dio che entra nella storia degli uomini assumendone tutti i rischi e persino le limitazioni. 3. Non è qui possibile neppure tentare di delineare una storia dell’esegesi biblica, specialmente a partire dalla nascita della cosiddetta esegesi critica, nel corso del XVII secolo, soprattutto con l’ebreo Baruch Spinoza e con il prete cattolico Richard Simon, giunti per vie diverse a conclusioni analoghe. Quando si parla di “esegesi biblica” ancora oggi molti credenti storcono il naso perché pensano troppo spesso a qualcosa di astratto, riservato a pochi eletti, qualcosa di sostanzialmente inutile per la fede della Chiesa; la mente corre verso libri ponderosi e verso le difficili note testuali della Bibbia di Gerusalemme, che spesso neppure gli studenti di teologia riescono realmente a comprendere. Non si è ancora spenta la polemica sollevata dal p. Paul Dreyfus nel 1975. Dreyfus, domenicano e professore all’École Biblique di Gerusalemme, aveva denunziato con forza la frattura esistente tra l’esegesi scientifica (“Exégèse en Sorbonne”, come lui la definiva) e l’uso pastorale della Bibbia nella Chiesa. Secondo Dreyfus, i problemi più gravi dell’esegesi moderna erano essenzialmente tre: prima di tutto, essa offre un sapere riservato esclusivamente a una casta di nuovi sacerdoti, gli esegeti appunto. Un sapere, poi, che è di carattere essenzialmente archeologico e, in terzo luogo, un sapere chiuso, che non rispecchia la pluralità di senso dei testi, che divengono così autoreferenziali. Queste accuse contengono onestamente una buona dose di verità – ci torneremo ancora sopra –, ma appaiono in buona parte superate. Oggi infatti, nella chiesa cattolica, i fedeli hanno a disposizione scuole bibliche e sussidi di ogni genere per potersi avvicinare, secondo le capacità di ciascuno, allo studio della Scrittura; l’esegesi non è più una scienza per pochi eletti. Inoltre essa non si presenta più come una sorta di archeologia dei testi biblici, trattati come puri oggetti del passato; l’esegesi utilizza ormai una pluralità di metodi, non limitandosi al solo metodo storico- critico; allo stesso tempo ogni esegeta è ben consapevole

della polisemia dei testi stessi, ovvero, per dirla con un linguaggio più semplice, ogni esegeta conosce bene la capacità che ogni testo biblico ha di offrire un senso che non è limitato alla sola lettera del testo. Del resto, la vostra stessa presenza qui, stasera, è una prova che l’esegesi biblica non è più qualcosa che spaventa o che tiene lontani dalle Scritture. Eppure, a ondate, il problema ritorna: a che cosa può servire a un credente l’esegesi biblica – che per sua stessa natura utilizza metodi scientifici, storici, letterari? Non bastano infatti la fede e la preghiera? Non basta un Rosario ben recitato? Basta poco per rendersi conto di come nel mondo cattolico il sospetto verso l’esegesi biblica sia largamente diffuso, un sospetto che non di rado si estende più genericamente alle Scritture, non più sentite come il cuore della vita ecclesiale. Nasce così un inatteso ritorno a posizioni fondamentaliste che sembravano ormai dimenticate; non è raro sentir di nuovo difendere l’esistenza storica di Adamo ed Eva e dell’arca di Noè – argomenti che tendo a liquidare spesso con superficiale ironia chiedendo all’interessato di spiegarmi chi era la moglie di Caino, visto che l’unica donna esistente al mondo era sua madre Eva, dopo che egli uccise Abele e quindi si sposò, secondo il racconto di Gen 4,17. Ma chi legge la Bibbia in modo fondamentalista rinuncia a priori alla ragione. Ma il rischio più grande che oggi vedo in relazione all’esegesi biblica è piuttosto un altro. A mio parere – e qui mi rendo ben conto di toccare nervi scoperti dell’attuale situazione ecclesiale, e mi scuso in anticipo se turberò i sonni di qualcuno – assistiamo decisamente al ritorno di posizioni di carattere fortemente dogmatico che, dai tempi di papa Pio X, sembravano ormai superate, grazie al Concilio Vaticano II. Così, per molti cattolici, la Scrittura appare realmente secondaria di fronte ai dettami del Magistero, il quale a sua volta è visto come l’unica espressione autentica della grande Tradizione ecclesiale. Detto in parole più chiare: ciò che dice il Papa rischia di essere considerato più importante di ciò che lo stesso testo biblico dice; o meglio: il testo biblico è accolto soltanto attraverso il filtro del verbo pontificio. Ciò vale anche per molti prelati che non sanno parlare in pubblico se non citano almeno tre volte il Papa: all’inizio, al centro e alla fine. Si genera così l’equivoco, teologicamente disastroso, che essere cattolici significhi prima di tutto la centralità della figura del Papa. È ovvio che in questo quadro l’approccio esegetico alle Scritture ha poco senso ed è sentito come qualcosa di estraneo o quanto meno di superfluo; nella migliore delle ipotesi, qualcosa di subordinato. 4. Qual è dunque il ruolo dell’esegesi biblica e qual è il rapporto che essa ha con la lettura credente delle Scritture? Nel poco tempo che abbiamo stasera a disposizione ho scelto di porre l’attenzione, per entrare nel vivo del discorso, su un aspetto che a mio parere è assolutamente fondamentale e che rispecchia uno dei punti capitali del rapporto tra esegesi biblica e lettura credente: la strettissima relazione che esiste tra Bibbia e storia, una relazione che rivela come l’esegesi biblica assolva a un compito indispensabile, così com’è stato messo in luce prima dal testo conciliare della Dei Verbum e poi dal documento della Pontificia Commissione Biblica pubblicato nel 1993, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. La posta in gioco è davvero molto alta: parafrasando le parole di Giovanni Paolo II nella lettera che fa da prefazione al suddetto documento, ne va della serietà – e dunque della verità – dell’Incarnazione e della stessa fede cristiana. Una breve sintesi relativa ai due documenti appena ricordati può aiutarci a entrare in questo argomento. La Dei Verbum raccoglie com’è noto gli sviluppi del Magistero biblico di Leone XIII, di Pio XI e soprattutto di Pio XII; ma non solo: il documento conciliare costituisce un autentico ritorno alle fonti patristiche e, questa è la sua vera novità, alla stessa Scrittura come prima fonte della sua dottrina. Così la Dei Verbum si propone come un testo pienamente inserito nella Tradizione ecclesiale, ma allo stesso tempo davvero innovativo, un documento che tuttavia, a quasi cinquant’anni ormai di distanza, non ha ancora prodotto tutti i suoi frutti. Il documento conciliare si apre non tanto parlando della Bibbia, quanto piuttosto della rivelazione di Dio agli uomini che viene presentata, nello splendido testo di DV 2, come comunicazione che Dio fa di sé stesso, una comunicazione che avviene attraverso fatti e parole (si ricordi la felice formula conciliare gestis verbisque). Dei Verbum 2 introduce così il concetto di una rivelazione dinamica e insieme amicale di Dio; anche qui non va lasciato cadere il bellissimo inciso relativo a un Dio che parla agli uomini tamquam amicos. Il carattere dialogico della rivelazione fa sì che essa non possa essere limitata alla sola comunicazione delle verità raccolte nel catechismo. I numeri 3 e 4 della costituzione conciliare introducono i primi riferimenti alle Sacre Scritture proprio con il mettere in luce la dimensione storica della rivelazione, prima nel popolo di Israele, poi nella persona di Gesù, Parola incarnata. Ma è soprattutto il numero 12 della Dei Verbum che, sulla scia dell’enciclica di Pio XII Divino Afflante Spiritu, apre definitivamente le porte all’esegesi storico-critica, intesa come disciplina teologica. L’esegesi storico-critica era da tempo entrata in conflitto con la lettura spirituale, liturgica, teologica, praticata nella chiesa cattolica; il pontificato di Pio X, segnato ad esempio dalle tristi vicende legate al p. Lagrange e alla fondazione del Pontificio Biblico di Roma, era stato il momento più duro di questa crisi che il numero 12 della Dei Verbum affronta pur senza nominarla. Il testo conciliare dichiara prima di tutto che l’interprete delle Scritture deve ricercare il senso voluto dallo scrittore sacro, servendosi dei mezzi propri dell’esegesi (si citano espressamente i generi letterari). D’altra parte si aggiunge – ed è in realtà una frase che il testo originario della Dei Verbum non prevedeva – che la Scrittura deve essere letta nello stesso Spirito nel quale è stata scritta; si tratta di un’espressione ripresa dall’enciclica Spiritus Paraclitus di Benedetto XV e debitrice a sua volta del commento di s. Girolamo alla lettera ai Galati. Riprenderemo tra poco il problema del cosiddetto “senso spirituale”; basti per adesso vedere come il documento conciliare ponga l’uno accanto all’altro un criterio di ragione e uno di fede: la ricerca

del senso del testo condotta secondo i principi propri dell’esegesi e la lettura nello Spirito. Quest’ultimo criterio è completato dalla menzione dell’unità delle Scritture (un principio tipicamente patristico), della tradizione viva della Chiesa (si badi bene: la Tradizione viva, non semplicemente il Magistero) e della analogia della fede. Non si tratta dunque di scegliere un criterio a scapito dell’altro: si tratta di prenderli assieme. In questo consiste la specificità dell’approccio cattolico alle Scritture. Del resto un tale approccio è attestato dalle stesse Scritture, come ho già accennato. Ora, l’esegesi biblica degli ultimi quattro secoli ha ampiamente dimostrato che una delle caratteristiche principali delle Scritture è proprio la dimensione storica delle Scritture stesse; tutto ciò imbarazza ancora il lettore cristiano, troppo spesso in cerca di idee semplici, chiare ed eterne, di ciò che oggi si ama definire “valore non negoziabile”. La tentazione di subordinare la Bibbia al catechismo è ricorrente nella chiesa. Ma la Bibbia non contiene formulazioni dottrinali, se non in minima parte; contiene piuttosto narrazioni, persino scritte con il linguaggio del mito, contiene persino poesia; anche in quei testi che sembrano lontani da una chiara prospettiva storica, come

i libri sapienziali o le lettere paoline, la storia si rende presente come riflessione sulla vita umana o sulle vicende di comunità cristiane molto concrete, quelle comunità che Paolo ha costantemente presenti nelle sue lettere. Il testo di Dei Verbum 12 ci impedisce di rinunciare all’esegesi così come è stata praticata soprattutto negli ultimi secoli; ci invita piuttosto a considerare l’esegesi stessa come un compito realmente teologico, indispensabile per l’intelligenza delle Scritture. Il testo di Dei Verbum 12 non risolve tutti i problemi, eppure indica con chiarezza un percorso e la direzione in cui camminare. 5. Il numero 13 della Dei Verbum, attraverso un’azzeccata citazione di Giovanni Crisostomo, introduce un’idea davvero importante che offre a quanto abbiamo appena detto un fondamento ancor più solido: ovvero l’analogia che esiste tra l’Incarnazione del Verbo e le Sacre Scritture; in entrambi i casi si rende manifesta la synkatabasis, ovvero la condiscendenza di Dio, una parola greca da intendersi qui in senso etimologico: Dio “condiscende”, ovvero scende giù insieme agli uomini. Così, come nella persona di Gesù Dio e uomo si incontrano, la stessa cosa avviene nelle Scritture che si presentano come parola incarnata: parola degli uomini e parola di Dio si incontrano assieme nel testo biblico. Come Dio, facendosi uomo in Gesù, appare nella nostra storia subendone tutte le limitazioni, fino alla morte, così accade alla sua Parola. L’esegesi, affrontando la dimensione storica delle Scritture, risponde in tal modo a un ruolo essenziale: mostrare come la storia non è affatto un elemento negativo, ma al contrario il luogo naturale nel quale la Parola di Dio si rivela. Con estrema chiarezza Giovanni Paolo II scrive, introducendo il già ricordato documento del 1993 della Pontificia Commissione Biblica, che “la Chiesa di Cristo prende sul serio il realismo dell’Incarnazione ed è per questo che essa attribuisce una grande importanza allo studio storico-critico della Bibbia”, un’idea del resto già in buona parte propria del Magistero di Leone XIII e di Pio XII. E più avanti lo stesso Giovanni Paolo II aggiunge che Dio, nel parlare un linguaggio umano, ne accetta dunque le limitazioni: «È questo – scrive ancora il Pontefice – che rende il compito degli esegeti così complesso, così necessario, così appassionante». Complesso, necessario, eppure appassionante: tre aggettivi che ben riassumono ciò che l’esegesi biblica realmente è – per lo meno agli occhi di chi la pratica! L’esegesi biblica – al di là dei diversi metodi che può utilizzare e che di fatto essa utilizza – è dunque richiesta dalla fede stessa nell’Incarnazione. L’esegesi non ha bisogno di diventare teologica, perché lo è già, proprio perché

storica. L’esegesi infatti risponde al compito di mostrare il radicamento della Parola di Dio nel linguaggio e nella storia degli uomini; la Bibbia non è un libro atemporale, una sorta di catechismo celeste valido per ogni epoca; è Parola di Dio mediata attraverso la storia e – in modo particolare per noi cristiani – attraverso l’esperienza di vita e di fede della comunità ecclesiale dalla quale la Bibbia nasce e alla quale essa ritorna. Dio si rivela nella storia. Non si dimentichi, di passaggio, che un altro dei meriti del Concilio è l’aver ricucito la gravissima frattura esistente tra chiesa e storia, offrendo così del mondo una visione positiva, come accade nel testo della Gaudium et Spes. Il mondo non è più una realtà da combattere, ma da accogliere, amare, trasformare. 6. Ma andiamo avanti. Oggi l’esegesi non è più limitata alla sola ricerca critica fatta sui testi biblici per conoscerne

l’origine, il contesto, il significato dei termini… Il documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993 contiene un’ottima sintesi dei diversi metodi e approcci che ormai si utilizzano per lo studio delle Scritture, una sintesi alla quale rimando. Eppure, anche utilizzando una pluralità di nuovi metodi molto fecondi per la capacità di coinvolgere i lettori delle Scritture, come ad esempio

il metodo proprio dell’analisi narrativa, non dev’essere mai perduta l’attenzione alla storia. Un caso tipico è rappresentato dai già ricordati racconti di Gen 1-11; l’esegesi degli ultimi due secoli ha dimostrato come il testo genesiaco utilizzi lo stesso linguaggio dei racconti di creazione del tempo, dunque un linguaggio di carattere mitico. Ma questa scoperta ci aiuta a collocare i testi genesiaci sullo sfondo della storia del tempo, che è verosimilmente quella dell’esilio babilonese e dell’immediato ritorno in patria. Questi capitoli contengono così la descrizione del progetto di Dio sul mondo in risposta a precise sfide che la storia del tempo poneva al popolo d’Israele. L’esegesi, collocando i testi nella loro prospettiva originaria, ci aiuta a discernere quegli elementi carichi di significato che hanno ancora pieno valore per l’oggi: nel caso di Gen 1-11, qual è il progetto di Dio sull’umanità. Così, per ricordare ancora i Vangeli, il lavoro esegetico ci ha aiutati a comprendere come i Vangeli non debbano essere letti, un po’ ingenuamente, quali resoconti di testimoni oculari. La distanza cronologica che separa la redazione dei Vangeli dalla persona di Gesù non è da vedersi

come un elemento negativo, ma piuttosto come il segno di uno sviluppo storico della memoria Iesu che i discepoli approfondiscono e comprendono più a fondo, alla luce della sua risurrezione, come già di fatto afferma Gv 2,22. In questo testo giovanneo, di fronte all’affermazione di Gesù relativa al Tempio ricostruito in tre giorni, Giovanni osserva che «quando egli fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù». La distanza cronologica non è sentita come un male, anzi, come necessaria per comprendere più a fondo la parola del Signore. L’esegesi ci aiuta poi a capire come il valore di un testo biblico non vada cercato nella sua storicità fattuale – che può essere più o meno fondata –, ma piuttosto nel suo necessario radicamento nella storia nel quale il testo è stato scritto. Se ad esempio il personaggio di Giuditta, eroina del libro omonimo, non è quasi certamente mai esistito, il libro è in realtà un testimone prezioso del periodo maccabaico; il narratore contrappone alla violenza religiosa di Giuda Maccabeo la fiducia totale – seppur anch’essa non esente da violenza – della sua controparte femminile Giuditta, invitando Israele a una diversa lettura della storia, nella quale Dio opera con criteri sorprendenti, e offrendoci criteri ancor oggi validi per chi vuole scrutare i segni dei tempi. Così avviene nel caso di Giona, anch’egli figura non storica, ma probabile espressione di un Israele che non voleva avere dei pagani e degli stranieri una visione così negativa come quella offerta dalle riforme di Neemia ed Esdra alla fine del V secolo. Questi pochi esempi servono a ricordarci come il lavoro esegetico eviti al lettore il rischio di una lettura ingenua o addirittura insignificante della Bibbia; l’esegesi aiuta il credente a far emergere tutte le potenzialità del testo biblico nel momento in cui esso viene letto come espressione di una storia che a sua volta il testo biblico illumina, offrendoci così i criteri per comprendere la nostra storia, il nostro tempo. 7. Si tratta di idee del resto ben note: scriveva il card. Martini nel 1981 nella sua celebre lettera In principio la Parola: «Non serve la Parola chi la ripete soltanto meccanicamente. A partire dalla comunità bisogna dunque leggere e decifrare la storia con la Parola. Ciò richiede tempo, pazienza, dialogo». Leggere e decifrare la storia con la Parola a partire dalla comunità: l’esegesi biblica ci aiuta a comprendere questo legame profondo e indissolubile tra la storia e la Parola e ci conferma che il programma pastorale allora proposto dal card. Martini dovrebbe costituire, in realtà, la base di ogni progetto pastorale per la chiesa intera. Ritorneremo tra poco sulla seconda parte dell’espressione appena citata di Martini: “a partire dalla comunità”. Per questa profonda ragione teologica, la parola di Dio, se vista nella sua forza e insieme nella sua debolezza di parola incarnata, ci apre ad una visione della storia che è una visione di speranza, tale da far cessare ogni lamento falsamente devoto sui tanti mali del mondo contemporaneo: i ritornelli ormai sin troppo frequenti sul relativismo, sull’individualismo…, rischiano alla fine di essere considerati come la voce di quei “profeti di sventura” incapaci di riconoscere i segni dei tempi.5 Come scrive ironicamente il Qohelet, «Non dire: ‘Come mai i tempi andati erano migliori di quelli di adesso?’. Perché non con saggezza fai questa domanda!» (cf. Qo 7,10). In questa nostra storia, e non in un’altra, la parola di Dio è chiamata a incarnarsi; questa nostra storia è il tempo di grazia, l’oggi nel quale la parola di Dio agisce. 8. Ho cercato fin qui di mostrare come l’esegesi, intesa come scoperta della dimensione storica, incarnata, propria delle Scritture, costituisca una vera e propria esigenza teologica. Eppure i problemi e rischi paventati dal p. Dreyfus non sono del tutto risolti. Due settimane fa6 l’Associazione Biblica Italiana ha tenuto ad Assisi uno dei suoi convegni biennali di studio, dedicato all’analisi del periodo persiano visto come momento formativo importante di una buona parte dell’Antico Testamento. Un lavoro molto specialistico, al quale hanno partecipato una sessantina di biblisti italiani. Un lavoro condotto in buona parte su problemi storici e letterari, che tuttavia non è stato fine a sé stesso, se soltanto ci ha aiutati a comprendere meglio alcune parti della Bibbia collocandole sul loro sfondo storico. Per il Nuovo Testamento, il lavoro è stato dedicato al tema dei carismi e dei ministeri nella chiesa primitiva; anche in questo caso con uno studio molto approfondito, per lo più di carattere storico. Ma per molti tutto questo resta un lavoro preliminare,

che può anche essere importante, ma che deve lasciare poi il campo alla scoperta di quello che già i Padri chiamavano il “senso spirituale”. Per i Padri, per lo più utilizzatori del metodo allegorico, era pacifico che il senso letterale delle Scritture fosse da solo insufficiente, se non addirittura talora fuorviante. Uno dei criteri utilizzati dai Padri nella loro esegesi delle Scritture era appunto il defectus litterae, l’insufficienza del senso letterale. La distinzione “senso letterale” – “senso spirituale”, ripresa e ampliata nel Medioevo, è giunta sino ai nostri giorni, spesso carica di equivoci. Che cosa significa, infatti, parlare di un senso spirituale delle Scritture? È un senso nascosto che l’esegesi non potrà mai raggiungere, se non trasformandosi in qualcosa di diverso? Il problema è stato ben affrontato, e a mio parere ottimamente risolto, dal documento del 1993. Secondo la Pontificia Commissione Biblica, infatti, il senso spirituale è «il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta». Si tratta pertanto di porre in relazione il testo biblico – ed è proprio a questo livello che interviene il lavoro esegetico – con il mistero pasquale, ovvero con la pienezza della rivelazione in Cristo e, insieme, con le circostanze presenti di vita nello Spirito. Abbiamo pertanto tre elementi da tener presenti: il testo biblico, la tradizione di fede, la vita dei credenti. L’esegesi, da sola, non basta; occorre praticarla all’interno dell’intera Tradizione della chiesa (ecco l’importanza del riferimento al mistero pasquale che è al cuore della fede della chiesa) e, allo stesso tempo, alla luce della vita di ogni credente. Tutto ciò mette in gioco, nel processo di interpretazione delle Scritture, non solo gli esegeti, ma anche i pastori e l’intero popolo di Dio, del quale del resto gli stessi pastori fanno parte. Ma ritorneremo su questo aspetto tra poco. Aggiungo soltanto che secondo il documento del 1993 non esiste dunque, necessariamente, una distinzione così netta tra senso spirituale e senso letterale. Un esempio – che il documento non fa, ma che ritengo molto appropriato – è costituito dal Cantico dei Cantici. Contrariamente alla tradizione patristica che lo interpretava in senso quasi esclusivamente allegorico – negando per lo più valore letterale al testo e addirittura affermando che il Cantico, inteso per quello che appare, contiene parole indegne di Dio – il Cantico è, al contrario, proprio quello che mostra di essere: un poema d’amore. Ma esattamente questo è il suo senso teologico; un’esegesi attenta del testo del Cantico mostra che esso allude molto spesso ai racconti genesiaci della creazione, presentandoci così un amore umano vissuto secondo il disegno divino. L’esegesi ci mostra poi come il testo allude continuamente a eventi della storia di Israele, facendoci così comprendere come l’amore umano divenga simbolo della storia dell’amore di Dio per il suo popolo. L’esegesi ci aiuta inoltre a comprendere il valore teologico della corporeità, così presente in ogni versetto del Cantico; ci aiuta ancora a collocare il Cantico sullo sfondo del primo ellenismo e a capire come mai il Cantico non parli esplicitamente di Dio, se non una sola volta alla fine, in 8,7, facendo così risaltare tutta la bellezza dell’amore umano in un’epoca nella quale l’amore veniva idolatrato e divinizzato. In questo modo, nell’esegesi del Cantico senso letterale e senso spirituale di fatto coincidono: si tratterà poi di inserire il Cantico nel più vasto messaggio che l’intera Scrittura e la tradizione ecclesiale ci consegnano sull’amore di coppia, fino a celebrarlo come un sacramento, quello del matrimonio; e questo è il compito proprio dei pastori. Si tratterà ancora di rendere attuale il Cantico nella vita del popolo di Dio, in un’epoca come la nostra che ha urgente bisogno di un messaggio positivo sulla sessualità. In altri casi, si tratterà – se vogliamo scoprire che cos’è il senso spirituale – di inserire un determinato testo biblico, specialmente se dell’Antico Testamento, nel quadro più vasto della Rivelazione; così già ricordati i testi biblici che ci presentano un Dio violento vanno da un lato compresi nel loro contesto storico, come espressione di un Dio che non tollera in alcun modo il male; dall’altro come espressione di una debolezza divina che troverà nella croce di Cristo il suo punto più alto. 9. Non c’è qui alcun bisogno che ricordi proprio a voi milanesi che la pratica della lectio divina costituisce la prova più evidente che una lettura della Bibbia fatta nello Spirito in cui essa è stata scritta, per usare ancora le parole di Dei Verbum 12, non significa affatto la rinuncia al lavoro esegetico, anzi, lo presuppone. Così la lectio divina per tanti anni proposta a Milano dal card. Martini tradisce la profonda preparazione biblica che vi sta dietro ed è affiancata a sua volta a un’opera capillare di formazione biblica, com’è quella che voi state continuando a fare. La lectio divina presuppone altresì un’azione di continua attualizzazione delle Scritture, poste a continuo confronto con la vita concreta del credente. La pratica della lectio divina ha infine il pregio di collocare la Scrittura all’interno del suo luogo più naturale: la liturgia, come momento privilegiato

nel quale la Scrittura diviene, come lo è la Liturgia stessa, che il Concilio ci ricorda essere culmine e fonte della vita della chiesa. Da questo punto di vista, per un esegeta cattolico, la lettura credente si inserisce come punto di partenza, e insieme come punto di arrivo del cammino esegetico. Ma anche in questo caso non viene mai meno l’istanza critica tipica dell’esegesi: cito al riguardo un altro milanese, il prof. Roberto Vignolo, che scrive al riguardo: «L’istanza critica è per il credente nient’altro che quella imprescindibile responsabilità di porre e soddisfare le oggettive e universali condizioni di verità indispensabili all’ascolto e all’obbedienza alla Parola, in corrispondente adesione alla forma umana da essa assunta». Anche la vita di fede del credente, la stessa liturgia, hanno bisogno dell’apporto critico dell’esegesi, sempre a causa del carattere incarnato proprio della rivelazione cristiana. La fede, infatti, non può né deve aver paura della storia. Per quanto riguarda i pastori, intesi come custodi e interpreti fedeli della grande Tradizione cattolica, essi hanno bisogno degli esegeti, proprio a causa della natura stessa di una fede che è legata inscindibilmente alla storia. D’altra parte, i fedeli non sono solo dei recettori passivi, il punto di arrivo di un percorso esegetico ed ermeneutico che essi non hanno compiuto, ma in quanto ascoltatori della Parola hanno anch’essi una funzione critica; saranno proprio i fedeli, con il loro sensus fidei, a riconoscere la validità ecclesiale degli apporti esegetici che attraverso i propri pastori essi hanno ricevuto. Traggo queste considerazioni da un vecchio articolo scritto nel 1972 da Carlo Maria Martini, ancora professore al Pontificio Istituto Biblico; è evidente che una tale impostazione del rapporto tra pastori, fedeli ed esegeti presuppone l’idea di una chiesa intesa come popolo di Dio composto di persone libere e responsabili, non puri recettori di un messaggio calato dall’alto. Ma il ruolo dei fedeli, all’interno del percorso esegetico, è ancor più centrale: alla luce dello splendido testo di Gaudium et Spes 1 gli esegeti sono chiamati a immergersi nelle gioie e nei dolori, nelle angosce e nelle speranze non solo della comunità ecclesiale, ma del mondo intero nel quale la chiesa è immersa. L’esegesi diviene efficace non se si pone soltanto come fondamento di formulazioni dogmatiche, ma se diviene un aiuto perché la chiesa impari sempre meglio a leggere i segni dei tempi, per usare un’espressione evangelica che prima Giovanni XXIII e poi il Concilio Vaticano II hanno fatto propria. I pastori divengono, in questo percorso, i promotori e insieme i custodi della fedeltà alla Parola letta nella Tradizione della chiesa. Conclude Carlo Maria Martini nell’articolo che ho appena ricordato: «… vorrei dire che l’esegeta è sempre in rapporto necessario con la Comunità e con il Magistero, ma in modi diversi, secondo i diversi livelli del suo lavoro. Queste tre realtà: esegeta, comunità e Magistero, debbono organicamente integrarsi nel rispetto dei compiti e delle funzioni proprie di ciascuna, perché si giunga a una esegesi globale del testo tale da nutrire efficacemente e genuinamente il popolo di Dio». 10. Aggiungo una postilla: esegesi biblica e lettura credente delle Scritture non soltanto non sono in opposizione tra loro, ma si integrano l’una nell’altra. Eppure, proprio il fatto che l’esegesi è necessaria ci ricorda anche che la lettura credente delle Scritture non è l’unica possibile. Se nei documenti più recenti del Magistero, fino alla Verbum Domini di Benedetto XVI, si insiste anche sulla dimensione culturale della Bibbia e sulla necessità che essa debba e possa essere letta anche al di fuori della comunità credente (cf. Verbum Domini nn. 109-116) – cosa che all’epoca della Dei Verbum non era ancora così chiara –, questo significa tuttavia che la chiesa non ha il monopolio delle Scritture e che l’esegesi è terreno d’incontro anche con il non credente, nel momento in cui affrontiamo la dimensione umana della Parola di Dio. Ogni uomo

potrà scoprire la grande ricchezza umana contenuta nelle Scritture e, se il Signore lo vorrà, arrivare a scorgere in esse la Parola di Dio.7 Troppo spesso diamo per scontato che chi si accosta alla Bibbia lo faccia già per motivazioni di fede. Non dimentichiamo poi che l’esegesi biblica è ormai uno dei fondamenti più solidi del dialogo ecumenico, il terreno comune sul quale ci possiamo incontrare con i fratelli membri delle diverse chiese non cattoliche. Ma qui il discorso si farebbe troppo lungo. 11. Ritorniamo ancora per un momento, avviandoci alle conclusioni, sul legame tra le Scritture e la storia, che la fede nell’Incarnazione mette in luce e che rende l’esegesi un compito indispensabile per l’intelligenza delle Scritture stesse. Così profondamente legata alla storia, la Parola di Dio mostra di essere una parola povera, esposta da sempre al rischio del dubbio, dell’incredulità e del rifiuto. Il profeta Geremia è gettato nel fango a causa della Parola da lui annunciata (Ger 38,1-6) e il testo da lui scritto viene bruciato dal re Sedecia (Ger 36,19-23) il quale, proprio a causa della sua incapacità di leggere la storia alla luce della Parola, condurrà il suo popolo alla rovina. Anche nei racconti evangelici non ci vengono risparmiati continui episodi relativi all’incredulità dei discepoli, persino in seguito alla risurrezione del Signore; la stessa Parola fatta carne viene ripudiata dagli uomini e messa in croce. Il Dio che si rivela nella storia è difatti il “Dio misterioso” (cf. Is 45,15) che insieme si rivela e si nasconde. Il documento della Pontificia Commissione Biblica 1993 ci ricorda, con molta saggezza, che nell’interpretazione della Parola di Dio occorre sempre distinguere senza separare,8 accettare cioè una tensione permanente tra ciò che nella Bibbia è di Dio e ciò che è dell’uomo, una tensione che nasce dalla debolezza della Parola incarnata. Più concretamente: si osserva non di rado, talora non senza un malcelato disprezzo, che gli esegeti non sono mai d’accordo tra loro, che la ricerca biblica ha ormai da tempo esaurito il suo compito. La ricerca a tutti i costi di certezze assolute, così tipica di questa nostra società in crisi di identità, coinvolge anche il modo in cui comprendiamo l’esegesi biblica. Questa tensione costante tra divino e umano che caratterizza le Scritture e che è propria della dinamica dell’Incarnazione rende tuttavia l’esegesi un compito permanente nella chiesa, nonché uno dei tanti segni della ricchezza delle Scritture e della Tradizione ecclesiale, la cui comprensione continuamente cresce, come afferma Dei Verbum 8, proprio anche grazie allo studio e alla contemplazione dei credenti, affiancati al carisma del Magistero. Aver paura della storia significa alla fine, a mio modesto parere, aver paura della stessa fede cristiana, riducendola a un’ideologia proprio nel momento in cui si crede di combattere una ideologia avversa. Certamente il lavoro esegetico presenta numerosi aspetti di relatività, di incompletezza, di possibili errori e di molti vicoli ciechi. Ma questo fa parte del cammino stesso della chiesa: un cammino fragile, segnato anche dalle possibilità di un umano fallimento, come è accaduto allo stesso Gesù fin dalla sua prima predicazione biblica nella sinagoga di Nazareth. Come scrive ancora Carlo Maria Martini aprendo il già ricordato testo, In principio la Parola: «Sento, quanto più mi addentro nell’argomento, che la Parola di Dio è qualcosa che ci supera da ogni parte, che ci avvolge e che quindi ci sfugge, se tentiamo di afferrarla. È stata la Parola per prima a rompere il silenzio, a dire il nostro nome, a dare un progetto alla nostra vita. È in questa Parola che il nascere e il morire, l’amare e il donarsi, il lavoro e la società hanno un senso ultimo e una speranza». L’esegesi biblica è da questo punto di vista un compito senza fine, come lo è la stessa lettura delle Scritture, finché siamo in questo mondo; si tratta ogni giorno di riscoprire le parole di un libro che chiama in causa la nostra vita e attraverso il quale la Parola di Dio si fa un continuo appello alla conversione, di ogni singolo credente e della chiesa intera. L’esegesi biblica non è dunque proprietà privata dei soli credenti, e meno che mai dei soli cattolici. Eppure, per i credenti, è quasi paradossalmente ancor più necessaria; è espressione di quell’amore per la Parola di Dio calata nella storia degli uomini che diviene il cuore della missione della Chiesa. Nel celebre discorso di addio agli anziani di Efeso (At 20) Paolo non affida la Parola alla chiesa, ma piuttosto affida la chiesa alla Parola. Così papa Gregorio Magno scrive a Teodoro, medico dell’imperatore: «Cerca dunque, ti prego di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio»; disce cor Dei in verbis Dei: la Parola è per il credente un incontro personale con Dio stesso: è ciò che l’esegeta credente cerca nelle Scritture, al pari di ogni altro credente. E nel suo monumentale commento a Giobbe, Gregorio dice ancora: «Nei confronti di tutta la scienza e di tutto il sapere umano, la sacra Scrittura è talmente elevata che io non posso tacere… essa viene in aiuto dell’animo del lettore con parole semplici e lo eleva ai sensi più sublimi; in un certo senso essa cresce con chi legge; anche i lettori più inesperti possono capirla in parte, e tuttavia i dotti la troveranno sempre nuova».9 Scriptura crescit cum legente… è un principio sempre valido, che – seppur pronunciato da papa Gregorio in un contesto in cui lo studio Scritture era condotto con metodi ben diversi da quelli odierni – intende affermare proprio questo: che la vita, l’esperienza, lo studio che ogni credente fa delle Scritture fa crescere sempre più la comprensione delle Scritture stesse e rende, aggiungo io, la chiesa sempre più calata nella nostra storia nella quale la Parola si è fatta carne in Cristo, storia che la Parola di Dio contenuta nelle Scritture ci insegna ogni giorno a comprendere e ad amare.

1 Viene qui pubblicato il testo della prolusione tenuta il 26 settembre 2011 nell’Aula Magna dell’Università Cattolica di

Milano in occasione della Scuola Biblica Diocesana; si tratta del testo orale della conferenza, rivisto dall’autore. Per gentile concessione di mons. Luigi Nason e di mons. Gianantonio Borgonovo, che l’autore ringrazia sentitamente.

2 La Scuola Biblica diocesana di Milano dell’anno pastorale 2011-2012 è stata dedicata, nella sua prima parte, al libro di Giobbe (a c. di Gianantonio Borgonovo).

3 Agostino, De doctr. chr. 1,1; PL 34,19.

4 Origene, Contra Celsum, IV, 36.

5 «Nell’esercizio quotidiano del Nostro ministero pastorale

Ci feriscono talora l’orecchio suggestioni di persone, pur ardenti

di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e

di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione

e rovina; vanno dicendo che la nostra età, a confronto con quelle

passate, è andata peggiorando; e si comportano come se nulla

abbiano imparato dalla storia, che pure è maestra di vita, e come se al tempo dei Concili Ecumenici precedenti tutto procedesse

in pienezza di trionfo dell’idea e della vita cristiana, e della giusta

libertà religiosa. A noi sembra di dover dissentire da codesti

profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi

che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico

la Provvidenza ci sta conducendo a un nuovo ordine di rapporti

umani…». Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio

Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962 (cf. Documenti. Concilio

Vaticano II, Bologna 1966, 994s).

6 Assisi, 5-9 settembre 2011; gli Atti dei due Convegni

dell’ABI verranno poi pubblicati in Ricerche Storico-Bibliche,

EDB, Bologna.

7 Si legga ad esempio il piccolo libro di Silvano Fausti, Per

una lettura laica delle Scritture, EDB / Ancora, Bologna / Milano

2008.

8 Cf. p. 100 (ed. Vaticana 1993).

9 Id., In Job. XX,1; PL 76,149 A.

Bibliografia minima di riferimento

Testi magisteriali

Costituzione conciliare Dei Verbum.

Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella vita della Chiesa, Città del Vaticano 1993.

Commissione episcopale per la dottrina della fede e la catechesi, La Bibbia nella vita della Chiesa.

«La parola del Signore si diffonda e sia glorificata» (2Ts 3,1), Roma, 18/11/1995.

Benedetto XVI, Verbum Domini, Esortazione Apostolica Post-sinodale, Città del Vaticano 2010.

Altri testi utili

In generale: cf. G. Borgonovo, «Verso il Sinodo sulla Parola di Dio», La Rivista del Clero Italiano, 88 (2007)

781-798; L. Mazzinghi, «Parola di Dio e vita della Chiesa»,

Rivista Biblica Italiana LV (4/2007) 401-429,

con ulteriore bibliografia alla quale rimando; cf. anche il mio «Parola di Dio e storia dell’uomo», in Diocesi di Cassano Allo Ionio,

• Don Luca Mazzinghi (Firenze) e don Alberto Bigarelli

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