Mangiare & Bere

1° Incontro Beniamino Goldestein Vai
2° Incontro Luca Mazzinghi – Vai
3° Incontro Filippo Manini – Vai
4° Incontro Brunetto Salvarani – Vai

Beniamino Goldestein

1. Santità del cibo, santità della vita – «Questi sono gli animali che potrete mangiare» (Lev 11.2)

La visione ebraica sull’alimentazione è legata e connessa con il concetto di sacro nell’ebraismo. Infatti le regole alimentari sono una parte del programma verso la “santità”, ovvero un ideale di perfezione di vita che coinvolge l’uomo in ogni particolare della sua esistenza, compreso il mangiare. Le regole per l’alimentazione qasher sono varie (il tipo di cibo, la sua preparazione, ecc.). Si tratta di divieti e di classificazioni eterni, che valgono anche per gli Ebrei contemporanei, perché secondo la visione ebraica tradizionale tali precetti, sebbene promulgati millenni fa, non sono stati dati soltanto per una determinata epoca o per un determinato periodo, bensì da allora durano fino ad oggi.

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SANTITÀ DEL CIBO, SANTITÀ DELLA VITA

«Questi sono gli animali che potrete mangiare» (Lv 11,2)[1]

  1. INTRODUZIONE

Quello del cibo è un tema che mette assieme le persone, come è ben chiaro a tutti; ma può anche dividere, in quanto un’incomprensione sul fatto che qualcuno non possa mangiare certi cibi può portare a visioni diverse sul perché non lo può fare.

Cominciamo con un episodio che non riguarda gli Ebrei in particolare. È uno spunto riportatomi da una signora, la quale fa volontariato in una mensa. Essendo arrivato un mussulmano, c’era il problema che egli non poteva mangiare il cibo distribuito quel giorno dalla mensa, poiché anche l’Islam presenta certe regole alimentari. Allora un’altra persona che pure fa volontariato in quel luogo ha commentato: “Se ha fame, mangerà”.

È un episodio che colpisce, in quanto sembrerebbe quasi che queste regole alimentari siano una sorta di “capriccio” o di stravaganza folcloristica. Invece è essenziale capire l’importanza che esse hanno, almeno dal punto di vista ebraico.

Partiremo dal punto di vista del principio generale, che è molto difficile da spiegare, anche perché su questo punto le religioni hanno visioni molto diverse. Quando si parla del dialogo interreligioso, io sostengo che la comparazione tra le religioni e tra i loro differenti modi di pensare è più importante che non il trovare i punti comuni, poiché è nei punti diversi che si possono capire le specificità e quindi poi i punti in comune.

Dunque partiremo da una visione generale sull’aspetto dell’alimentazione nell’ebraismo, per poi scendere nel particolare e spiegare quali sono le regole principali dell’alimentazione ebraica.

  1. LA SCELTA DEL SACRO

Sulla parte generale ci aiuteremo con un brano tratto dal volume: “Guida alle regole alimentari ebraiche” (1996, Edizioni Lamed), scritto da Riccardo Di Segni, oggi rabbino capo della Comunità ebraica di Roma. Trattando delle regole alimentari ebraiche, nella “Premessa” Di Segni scrive che la visione ebraica sull’alimentazione è legata e connessa con il concetto di sacro nell’ebraismo, che è un concetto molto diverso da quello normalmente conosciuto sulla sacralità.

«Le regole alimentari ebraiche devono essere inquadrate in un ambito più vasto. Esse rappresentano solo una parte della normativa che regola ogni momento della vita dell’ebreo. Lo scopo di questa normativa è di guidare l’esistenza secondo modelli di comportamento che portano alla perfezione e alla santità.

Le regole alimentari sono una parte del programma verso la “santità”; per comprenderle è quindi necessario chiarire il significato e il concetto di “santità” (qedushah) nell’esperienza ebraica.

La radice qdsh, da cui derivano qeduàsh e qadòsh (sacro) aveva in origine il significato di “separazione”, in ogni senso, anche negativo». Quindi qedushah è “santità” come “separazione” in ogni senso: sia nel positivo, ma anche nel negativo. «La lingua biblica conserva i segni di questi significati originari in alcuni termini, come ad esempio qadèsh e qedeshàh [la cui radice deriva sempre da qadòsh], che indicano, al maschile e al femminile, coloro che si dedicavano alla prostituzione sacra»: quindi qui c’è un’accezione negativa.

«Questa premessa è importante perché, anche se nella successiva evoluzione linguistica qadòsh indica la separazione positiva, la sacralizzazione, il significato originale del termine spiega i limiti e lo spazio, fondamentalmente materiale, in cui l’ebraismo inserisce la sua concezione di sacro.

Il “sacro” deriva da una scelta, che ha per oggetto azioni e cose della vita di ogni giorno, modi di comportamento, prima ancora di idee e pensieri».

Questo è importante, poiché si tratta di un principio centrale nel pensiero ebraico: l’azione precede il pensiero, l’azione precede la fede. Dunque la fede segue l’azione, non il contrario.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 26-01-2014, rivista dall’autore.

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Luca Mazzinghi

2. Il banchetto: segno della vita in Dio – «Gusterete grasse vivande e vini raffinati» (Is 25,6)

Quello del banchetto è un tema che attraversa l’intera Sacra Scrittura: è il luogo della convivialità, della festa dell’abbondanza, della gratuità. In Siracide 31 si leggono consigli su come comportarsi nei banchetti. In Isaia 25 l’immagine del banchetto è combinata con quella di un intervento futuro salvifico di Dio. In Proverbi 9 Donna Sapienza invita tutti al proprio banchetto, cioè a leggere il libro stesso, ovvero la Parola di Dio. In Matteo 22 il banchetto è segno della salvezza offerta da Dio a tutti gli esseri umani, che richiede un’adeguata risposta da parte di ognuno. In Apocalisse 19 il banchetto per le nozze dell’Agnello è l’immagine della salvezza futura offerta da Cristo all’intera umanità, anche tramite il banchetto eucaristico celebrato dai cristiani nella storia.

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IL BANCHETTO: SEGNO DELLA VITA IN DIO

«Gusterete grasse vivande e vini raffinati»  (Is 25,6)[1]

  1. Introduzione

Quello del banchetto è un tema presente nell’intera Sacra Scrittura, in maniera trasversale. Il banchetto è inteso molto spesso per ciò che realmente è, ovvero un luogo di incontro, di convivialità, di festa; ma anche un luogo nel quale i valori più belli e più grandi della vita umana si possono talvolta pervertire. Dunque il banchetto è, nella Scrittura, una realtà ambivalente. Offriamo subito al riguardo due esempi negativi di un banchetto biblico.

Un primo esempio si trova nell’Antico Testamento, nel libro di Daniele, dove si narra del banchetto del re Balthassàr (cf. Dn 5). Il re banchetta a quattro palmenti, usando per il suo festino gli oggetti sacri depredati nel tempio di Gerusalemme. Mentre il re mangia e beve, appare all’improvviso una mano misteriosa che scrive su una parete una frase altrettanto misteriosa, che soltanto il profeta Daniele saprà interpretare: quella scritta rappresenta la condanna del re, il quale morirà proprio in quella notte stessa, dopo il banchetto. Si vede bene che qui il banchetto è considerato come l’esempio opposto della convivialità, della festa, della condivisione.

Un altro banchetto analogo si trova descritto nel Nuovo Testamento, nel secondo vangelo. È il banchetto celebrato per il compleanno del tetrarca Erode Antipa, durante il quale la bella Salomé, figlia della regina Erodiade, danza e, alla fine della sua performance, chiede al re come ricompensa la testa di Giovanni Battista. L’evangelista Marco nota che Erode, «a motivo (…) dei commensali, non volle opporle un rifiuto» (Mc 6,26). Il banchetto è qui esibizione del proprio lusso, della propria vanità, che in questo caso provoca una morte atroce, quella dell’odiato Giovanni.

Questi sono due esempi biblici nei quali il banchetto può diventare il rovescio di una vera festa, divenendo addirittura fonte di omicidio e di violenza. Come per tutte le cose umane, la Bibbia descrive dunque un’ambiguità di fondo: le realtà umane possono essere belle, ma si possono anche trasformare nel loro contrario.[2]

  1. Consigli dei saggi

per i banchetti (Siracide 31)

Per parlare del nostro tema, Il banchetto: segno della vita in Dio, prendiamo le mosse dai banchetti veri, concreti, reali, e non da quelli simbolici. E di banchetti reali la Bibbia parla spesso. Lo fanno, in particolare, i saggi di Israele, sempre attenti alla realtà della vita umana.

Di banchetti parla ampiamente il libro del Siracide, o di Ben Sira, il quale era un saggio di Gerusalemme vissuto nella prima metà del II secolo a.C. Ben Sira è un Ebreo osservante e molto attento alle tradizioni del suo popolo che, tuttavia, non disdegna di comportarsi secondo l’uso greco, quando è necessario. Nel II secolo a.C. il mondo greco, infatti, aveva ormai fatto il suo ingresso anche nella città di Gerusalemme. Ben Sira descrive così banchetti vissuti secondo lo stile greco, banchetti nei quali si mangiava sdraiati sul triclinio, si ascoltava musica, si tenevano discorsi, si discuteva di vari argomenti tra i commensali.

Al cap. 31 del libro di Ben Sira troviamo una serie di consigli pratici relativi ai banchetti, un misto di buon senso, di educazione, di fine ironia:

«Sei seduto davanti a una tavola sontuosa?

Non spalancare verso di essa la tua bocca» (v. 12).

Dunque, afferma Ben Sira, quando si ci si trova di fronte a una tavola imbandita e ricca per il tanto cibo che vi è sopra, è necessario mantenere la calma e non buttarcisi sopra con voracità! E il nostro saggio continua:

«Sii il primo a smettere per educazione,

non essere ingordo per non incorrere nel disprezzo.

Se siedi tra molti invitati,

non essere il primo a tendere la mano» (vv. 17-18).

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 02-02-2014, rivista dall’autore; si è preferito lasciare un tono colloquiale, con l’aggiunta di poche note essenziali.

[2] Sull’argomento del banchetto si veda tutto il numero 53 della rivista Parola Spirito e Vita (EDB, Bologna, 2006 [=PSV]).

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Filippo Manini

3. Il pasto, spazio per le differenze – «Ogni creazione di Dio è buona e nulla va disprezzato» (1 Tm 4,4)

Le proibizioni alimentari di Lv 11 hanno lo scopo di distinguere chi è fedele alla Torah di Dio da chi non lo è. Paolo supera tale distinzione, poiché il cibo mangiato non conta nulla; piuttosto conta la comunione coi fratelli in Gesù, comunione sempre messa in pericolo da possibili divisioni. Anche nei tre vangeli sinottici e negli Atti degli Apostoli è mostrato il superamento delle proibizioni alimentari, come segno dell’accoglienza dei gentili nella chiesa, con il caso del centurione Cornelio e con la moltiplicazione dei pani e dei pesci realizzate sia in terra di Israele che in territorio pagano. Se, con ogni probabilità, il Gesù storico ha rispettato le norme alimentari ebraiche, la Chiesa, per accogliere tutte le genti, ha dibattuto e riflettuto sulla parola e sulla vita di Gesù a proposito di tale tema, affermando l’apertura universale della misericordia di Dio.

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IL PASTO, SPAZIO PER LE DIFFERENZE

«Ogni creazione di Dio è buona e nulla va disprezzato» (1 Tm 4,4)[1]

Il titolo “Il pasto, spazio per le differenze” è accompagnato da una citazione: «Ogni creazione di Dio è buona e nulla va disprezzato» (1 Tm 4,4). Notiamo subito una tensione: l’affermazione che «ogni creazione è buona» vuole cancellare ogni distinzione tra cibi proibiti e cibi ammessi e superare il contrasto tra diversi usi alimentari, in modo che a mensa stiano insieme persone di popoli diversi, rendendo grazie a Dio (1 Tm 4,3-5); ma uno degli atti fondamentali del creatore è proprio di separare e distinguere (Gn 1,1-2,3) e nella Scrittura questo giustifica anche le restrizioni alimentari, che sono un segno distintivo tra i popoli e un ostacolo a condividere la tavola. Un altro sottotitolo poteva essere: “Mangiare insieme, mangiare divisi”. Mangiare è una necessità con una grande forza simbolica: esprime tra l’altro la comunanza di vita, che spesso si definisce contrapponendosi agli altri. Su questa vasta questione, esamineremo brevemente alcuni versetti del Levitico, poi alcuni testi di Paolo, degli Atti degli Apostoli, di Marco e Matteo.

  1. La legge di Mosè

1.1. Levitico: inversione normativa e distinzione

Partiamo dall’espressione inversione normativa, che si usa per definire un fenomeno culturale: certe norme di un gruppo umano sono il contrario di quelle di un altro, e questo contribuisce a delimitarli.[2] Eccone una formulazione chiara nel libro del Levitico: «Non farete come si fa nella terra d’Egitto dove avete abitato, né farete come si fa nella terra di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi» (Lv 18,3). «Non fare come» è un criterio che accorpa diverse leggi e distingue Israele dai popoli vicini.

Questo riguarda anche il cibo: il Levitico ne dà una trattazione fondamentale fornendo al capitolo 11 la lista degli animali che si possono o non si possono mangiare, nel quadro delle regole sul puro e sull’impuro (Lv 11-16[3]); le proibizioni sono ricapitolate così: «Non rendete le vostre persone contaminate con alcuno di questi animali che strisciano; non rendetevi impuri con essi e non diventate, a causa loro, impuri. Poiché io sono il Signore, vostro Dio. Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo; non rendete impure le vostre persone con alcuno di questi animali che strisciano per terra. Poiché io sono il Signore, che vi ho fatti uscire dalla terra d’Egitto per essere il vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo» (Lv 11,43-45).

Le regole di purità non riguardano direttamente le scelte morali: puro e impuro sono la condizione di esseri viventi, oggetti, tempi, luoghi; la moralità risiede nell’obbedienza o disobbedienza alle regole date dal Signore, per evitare di contaminarsi o per rimuovere l’impurità. L’opposizione tra  puro e impuro (come quella, simile ma non identica, tra sacro, o santo, e profano) si trova in quasi tutte le culture; si tratta ad esempio di distinguere ciò che si può mangiare e toccare, di come comportarsi in certi tempi e luoghi, di che riti compiere per liberarsi dall’impurità.

Notiamo nelle citazioni di Levitico una peculiarità che si trova continuamente nella Scrittura:  feste e istituzioni (spesso comuni ad altri popoli) sono radicate nella liberazione dall’Egitto, evento fondante dell’esistenza d’Israele, e ne perpetuano la memoria. «Il Signore fa uscire Israele dall’Egitto» significa che ne ha separato la massa di schiavi per farne un popolo; la santità di Israele, che consiste anche nell’osservare le regole alimentari, è un’imitazione della santità di Dio: «Siate santi, perché io sono santo», come più volte chiede il Levitico.

Aggiungiamo un altro passo: «Poiché tutte queste cose abominevoli le ha commesse la gente che vi era prima di voi e la terra è divenuta impura. Che la terra non vomiti anche voi, per averla resa impura, come ha vomitato chi l’abitava prima di voi» (Lv 18,27-28). Qui troviamo anche la minaccia dell’esilio, interpretato come una reazione della terra che non sopporta su di sé l’impurità. Israele prende il posto di popolazioni espulse per gli abomini commessi e deve guardarsi dall’incorrere nella stessa sorte.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 16 febbraio 2013, rivista dall’autore. Le indicazioni bibliografiche non mirano alla completezza. La Bibbia è citata secondo la versione CEI, con qualche adattamento.

[2] Si possono vedere diversi passi di Jan Assmann, Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria, Adelphi, Milano 2000 (or. ingl. 1997, ted. 1998).

[3] Il capitolo 16, con il rituale del giorno dell’espiazione, si può considerare il culmine dei diversi riti di purificazione di Lv 11-15; ma la sua portata è più ampia e alcuni studiosi lo isolano quasi come centro del Levitico.

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Brunetto Salvarani

4. Conoscersi a tavola Parlare di Dio attraverso il cibo

Essendo quello del mangiare un atto ricco di significato, pressoché ogni religione impone ai fedeli delle regole gastronomiche (la kasherut ebraica, il cibo halal islamico, ecc.). Anche perché la lavorazione umana del cibo è un modo per continuare l’opera divina. Per tutte le religioni il cibo è un dono ed un segno della festa, come momento di vita comune. Il Qohelet invita a godere del cibo come segno dell’apprezzamento delle cose terrene, come “realtà penultima” (D. Bonhöffer) attraverso la quale giungere alla “realtà ultima” che è Dio. Come Francesco d’Assisi che, sul letto di morte, chiede un dolcetto, perché Dio, al quale egli sta andando, non nega le realtà terrene, da Lui stesso donate all’uomo, ma le eleva nella gioia della salvezza eterna.

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CONOSCERSI A TAVOLA

Parlare di Dio attraverso il cibo[1]

                    All’amico Rubem, che sapeva mangiare perché sapeva raccontare

Antipasto alla genovese…

Prendiamo le mosse da un brano di Fabrizio De André, ‘Â çimma, una canzone composta con il collega e concittadino Ivano Fossati tratta dall’album Le nuvole, del 1990, in dialetto genovese. Il pezzo riferisce dell’elaborata preparazione, in vista di un lauto pranzo, della cima, un piatto di carne tipico della Liguria, sorta di polpettone o pancia di vitello ripiena, con una dovizia di particolari che non sfigurerebbero in un manuale gastronomico. Il tutto condito con una religiosità dal sapore antico, arcana e forte. ‘Â çimma è interamente giocato sul fatto che il cucinare è una sorta di un rituale, tanto che il linguaggio è sostanzialmente liturgico: la cima viene “battezzata nelle erbe aromatiche”, punzecchiata e servita, e ci si rifà al nome di Maria. Inoltre, si adombra che potrebbero subentrare i diavoli, per creare problemi nella preparazione in corso: quindi bisogna sperare e pregare affinché le cose vadano bene.

Alla fine si dice che sono gli scapoli che devono tagliare la prima fetta, e qui c’è un po’ di ironia: “Mangino, mangino! Ma non sanno che, prima o poi, ci sarà qualcuna che li mangerà”… Un osservatore acuto di cose deandreiane come Paolo Ghezzi – nel volumetto Per un bacio mai dato – commenta: “È ‘Â çímma a saldare misteriosamente terra, mare e cielo, in una laica preghiera che ha la forza primigenia di un rito ancestrale recitato nella lingua dei liguri”[2].

Ecco la traduzione in italiano di ‘Â çimma:

La cima

 

Ti sveglierai sull’indaco del mattino

Quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare

Ti guarderai allo specchio di un tegamino

Il cielo si guarderà allo specchio della rugiada.

Metterai la scopa dritta in un angolo

Che se dalla cappa scivola via, in cucina la strega.

A forza di contare le paglie che ci sono

La cima è già piena ed è già cucita.

 

Cielo sereno, terra scura

Carne tenera, non diventare nera.

Non tornare dura.

 

Bel guanciale, materasso di ogni ben di Dio

Prima di battezzarla nelle erbe aromatiche

Con due grossi aghi dritti in punta di piedi

Da sopra a sotto svelto la pungerai

Aria di luna, vecchia di chiarore di nebbia

Che il chierico perde la testa e l’asino il sentiero.

Odore di mare mescolato a maggiorana leggera

Cos’altro fare, cos’altro dare al cielo?

 

Cielo sereno, terra scura

Carne tenera, non diventare nera.

Non tornare dura.

E nel nome di Maria

Tutti i diavoli da questa pentola andate via.

 

Poi vengono a prendertela i camerieri

Ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere

Tocca allo scapolo la prima coltellata

Mangiate, mangiate, non sapete chi vi mangerà.

 

Cielo sereno, terra scura

Carne tenera, non diventare nera.

Non tornare dura.

E nel nome di Maria

Tutti i diavoli da questa pentola andate via.

Poiché da un punto di vista teologico il nostro tema è vastissimo, decido di offrire appena qualche assaggio di quella satura lanx che i Romani avevano nella loro tradizione culinaria, ossia un piatto grande in cui si metteva un po’ di tutto – dal dolce al salato – e che ha dato poi il nome al genere letterario della satira, come ben sapeva Eugenio Montale (1896-1981), il quale intitolò proprio Satura (1971) uno dei suoi più importanti volumi di poesie. Il tema è quello della varietà e della diversità. E, visto il nostro argomento, la diversità ci sta molto bene…

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 23-02-2014, rivista dall’autore.

[2] P. GHEZZI, Per un bacio mai dato. L’amore secondo De André, Ancora, Milano 2011, p. 25.

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