L’ira di Dio

1° Incontro Donatella Scaiola Vai
2° Incontro Maurizio Marcheselli – Vai
3° Incontro Giuseppe Pulcinelli – Vai
4° Incontro Francesco Maria Feltri – Vai

Donatella Scaiola

1. Dio contro Israele «Darò sfogo alla mia ira, scaricherò su loro il mio furore» (Ez 5,13)

Il tema dell’ira è presente nell’intera Bibbia e nell’AT è espresso principalmente tramite metafore. Se l’ira dell’uomo (di cui si parla in pochi testi) è vista in maniera negativa come una mancanza di sapienza, nei numericamente abbondanti passi sull’ira di Dio, essa esprime la reazione del Signore al male. Ovvero Egli si adira perché non è connivente al male, che, anzi, vuole distruggere. Non a caso stretto è il rapporto tra l’ira di Dio e il ristabilimento della giustizia: Egli libera la vittima dall’oppressore, mettendo quest’ultimo nell’impossibilità di continuare a fare il male. Dunque Dio è un “vendicatore”, che agisce per fermare chi nuoce: è un Dio appassionato, che si impegna nell’alleanza con l’uomo, esercitando la sua ira nei confronti dell’ingiustizia

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DIO CONTRO ISRAELE

«Darò sfogo alla mia ira, scaricherò su loro il mio furore» (Ez 5,13)

Introduzione

Il tema dell’ira di Dio appare, a prima vista, lontano dalla mentalità moderna e suscita di conseguenza reazioni di fastidio che arrivano fino al rifiuto di alcuni testi veterotestamentari considerati superati o ai quali viene al massimo riconosciuta una valenza di tipo culturale. Invece questo tema non è marginale nella Scrittura; anzi esso è presente in maniera trasversale sia nell’Antico Testamento (AT) che nel Nuovo (NT). Ciò significa che, lungi dall’essere una tematica di sapore vagamente arcaico e da relegare in un passato ormai distante dal contesto in cui noi viviamo oggi, si tratta di un concetto che ha a che fare con l’alleanza e con l’esercizio della giustizia, cioè con categorie teologiche di grande rilievo nella Scrittura.

Dopo queste necessarie osservazioni di carattere preliminare, il presente contributo si articola in cinque punti che riguardano: la terminologia usata per parlare dell’ira; la descrizione delle principali metafore utilizzate; il significato del concetto; il rapporto con l’alleanza e con il tema della giustizia, a partire dalla proposta di alcuni testi emblematici. Al termine del percorso una sintesi conclusiva riprenderà in breve i principali risultati emersi nel corso dell’indagine.

  1. La terminologia

Il vocabolario connesso al campo semantico dell’ira è molto ampio. Il termine usato con più frequenza è ʾap che significa sia “naso” che “ira”. Il vocabolo indica sia l’ira umana (40 volte) che quella divina (170 volte).

Altri vocaboli sono: ḥemāh, che deriva da una radice che significa “essere caldo”; esso ricorre 118 volte nell’AT, 90 delle quali riferite all’ira di Dio; ḥrh, una radice che significa “essere incandescente, ardere” (92 volte), da cui deriva il sostantivo ḥārôn, sempre riferito all’ira di Dio; kʿs che esprime il sentimento che nasce in una persona che non è stata trattata come riteneva di meritare. Quindi significa “afflizione, dispiacere” più che ira.

Da questa sommaria presentazione si può concludere che il campo semantico dell’ira è piuttosto complesso ed esprime indignazione, furore, dispiacere, ecc.

  1. Principali metafore utilizzate

La metafora più comunemente usata ruota attorno al “naso”, che nell’AT non è considerato principalmente l’organo collegato all’olfatto, quanto, come si diceva in precedenza, all’ira. Infatti nella concezione antropologica dell’AT le emozioni e i sentimenti sono generalmente associati a diverse parti del corpo. La relazione tra “naso” e “ira” si stabilisce probabilmente perché il verbo ʾānap, “essere adirato”, dal quale deriva il termine ʾap, significava originariamente “sbuffare”. Quando Dio si arrabbia, un fumo esce dalle sue narici (Ez 38,18; Sal 18,8-9) e, quando una persona si arrabbia, ha generalmente il fiato corto e sbuffa. Dio è spesso definito «lento all’ira» (Es 34,6; Nm 14,18; Gio 4,2; ecc.), un sintagma che letteralmente significa «lungo di naso». Se Dio ha il naso lungo, vuol dire che la sua collera impiega del tempo a manifestarsi e dunque la frase ebraica esprime in maniera quasi plastica la pazienza di Dio.

Oltre al naso, altre metafore vengono utilizzate per esprimere l’ira di Dio, tra le quali, il fuoco (Ger 4,4; 21,12; Ez 25,14, ecc.) e la fornace (Sal 21,10): si dice spesso infatti che l’ira divampa o brucia. Inoltre l’ira è anche paragonata ad una coppa che devono bere coloro cui l’ira è destinata (Is 51,17.22; Ger 25,15; Ap 16).

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Maurizio Marcheselli

2. Le invettive di Gesù contro chi non crede – La condanna di chi ha «per padre il diavolo» (Gv 8,44)

In Gv 8,44 si adira contro dei Giudei, apostrofandoli come «Figli del diavolo»: sono alcuni Ebrei che non lo ascoltano e, anzi, lo criticano. Questo tipo di frasario era comune tra i profeti ed è presente anche in 1^ Gv. Inoltre il quarto vangelo risente dello scontro tra giudaismo e cristianesimo che si verificò verso la fine del I secolo. Dunque in questo passaggio Gesù non condanna l’intero popolo di Israele, bensì chi non lo ascolta. Pertanto si tratta di invettive che devono risuonare anche (anzi: soprattutto!) nella comunità cristiana, perché il rischio di usare la Parola di Dio contro gli altri è sempre presente. Invece l’atteggiamento giusto è quello di chi sta sotto questa parola e si lascia giudicare da essa rispetto al proprio comportamento.

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LE INVETTIVE DI GESÙ CONTRO CHI NON CREDE

La condanna di chi ha «per padre il diavolo» (Gv 8,44)[1]

  1. Introduzione

Affronteremo la tematica de “L’ira di Dio” nel vangelo secondo Giovanni, specificamente nel passaggio di Gv 8,44: «Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin dal principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna».

Si tratta di un testo assai problematico. Il titolo assegnato a questa relazione è “Le invettive di Gesù contro chi non crede”. Non sappiamo ancora se il termine “invettive” sia quello più giusto, né se i destinatari siano dei non credenti. Vediamo cosa si può ricavare leggendo il versetto e poi tentando di collocarlo nel suo contesto. Dunque il nostro scopo è cercare di restituire a questo versetto un senso plausibile rispetto al contesto in cui è stato generato.

Una traduzione più letterale di Gv 8,44 suona così: «Voi siete dal padre che è il diavolo e volete fare le brame del padre vostro. Egli era omicida dal principio e non stava nella verità, perché non c’è verità in lui. Quando dice il falso, parla dalle sue cose (cioè: «Dice del suo»), perché è falso e padre di esso». «Di esso», cioè del falso, che nell’originale greco è sostantivato; quindi la traduzione: «Padre della menzogna» rende effettivamente il senso del passaggio.

Grazie alla dichiarazione di 8,44, il quarto vangelo si è guadagnato l’accusa di essere la più chiara forma teologica di quella demonizzazione dei Giudei che è la radice dell’antisemitismo dei cristiani. Non c’è dubbio che la storia degli effetti di questo testo sia una storia drammatica. Non si può negare che un testo come questo, più di altri, ha effettivamente generato un atteggiamento da parte dei cristiani verso i Giudei tale che, dal punto di vista delle dinamiche storiche, è certamente tra le radici, più o meno remote, della Shoah. Quindi si tratta di un testo particolarmente problematico.

Cercheremo di mostrare che, metodologicamente, bisogna riuscire a distinguere la storia degli effetti di un testo dal suo significato originario. Non è automaticamente detto che, poiché questa invettiva così dura ha prodotto un certo tipo di effetto, tale effetto sia in conformità a quella che era l’intenzione di chi pronunciò queste parole o di chi scrisse il quarto vangelo.

Il testo attorno a cui ruota la nostra riflessione è inserito in una sezione più ampia. Partiamo da una considerazione di insieme sulla pericope Gv 8,31-59, che comincia così: «Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: ‘Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi’» (8,31-32). Con questi versetti inizia una sezione di testo che giunge sino alla fine del cap. 8. Effettivamente è la parte più incandescente del quarto vangelo: da Gv 5 a Gv 10 il vangelo è caratterizzato da una serie di confronti piuttosto serrati tra Gesù e i Giudei. Però non c’è alcun dubbio che l’apice drammatico di questi incontri-scontri è costituito dai capp. 7-8 ed in particolare dal cap. 8.

Di cosa si tratta? Cosa sono? Delle invettive? Una condanna? Una controversia? Un dialogo?

Questi incontri-scontri tra Gesù e i Giudei si possono definire delle controversie. Alcuni esegeti ritengono che già il chiamarli “controversie” sia connotarli in un modo troppo negativo; e che, piuttosto, si debba riconoscere che qui domina un atteggiamento dialogante (Gesù comunque interagisce con l’interlocutore). Tanto che alcuni studiosi del quarto vangelo, quali Marida Nicolaci (2007), rifiutano di usare il termine “controversia” e sostengono che si debba parlare assolutamente di dialogo, proprio per sottolineare che si è troppo proiettato su questo testo una prospettiva nera, cupa, negativa, di avversione, di scontro. Al contrario, esso sostanzialmente rimane un dialogo tra Gesù e questi Giudei.

Io non ho difficoltà ad accettare il termine “controversia”, poiché qui il dialogo ha dei toni piuttosto accesi; e “controversia” è un termine usato normalmente per tanti passi dei vangeli sinottici, in cui il problema di un terribile anti-giudaismo non si pone. Quindi non è che, in sé, il termine sia così “contaminato” da non potersi usare. La controversia indica una disputa attorno a dei punti sui quali non c’è accordo e ciascuna delle due parti porta argomenti a sostegno della propria tesi. Dunque noi useremo tranquillamente anche questo termine. Siamo davanti a delle controversie, a delle dispute, nelle quali c’è sicuramente un elemento di dialogo; altrimenti sarebbe un proclama! Fino alla fine del capitolo l’interazione rimane viva; però sono dei dialoghi che hanno un tono indubbiamente forte, acceso e polemico.

Che siano un’invettiva e una condanna sembra più improbabile; lo diremo alla fine del percorso. Attiriamo l’attenzione sul fatto che i termini che usiamo non sono mai neutri e quindi i termini “invettiva” e “condanna” non sono il modo più corretto di identificare questa pagina del quarto vangelo.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 08-02-2015, rivista dall’autore.

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Giuseppe Pulcinelli

3. Dio contro i peccatori – Paolo e la punizione di empi e ingiusti (Rm 1,18-3,20)

Nella propositio di Rm Paolo parla di «Vangelo» e di «giustizia di Dio». Ma subito dopo sconcerta, poiché scrive della «ira di Dio» contro «ogni empietà e ogni ingiustizia» commesse dagli uomini. Qui Paolo usa un linguaggio conosciuto dai suoi destinatari (che sono di origine ebraica): secondo il concetto biblico della retribuzione, Dio punisce il male, a prescindere da chi lo compia; allo stesso modo, allora, retribuirà il bene, anche quello compiuto dai pagani. In tal modo Paolo mostra che la Legge non ha un ruolo salvifico (sebbene l’alleanza con Israele sia permanente). Inoltre bisogna notare che «l’ira di Dio» è contro il male in sé, non contro gli uomini, che la misericordiosa giustizia di Dio rende «giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù» (3,24). Dunque, alla fine, non sono le opere della persona a contare, bensì «la fede in Cristo Gesù».

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L’IRA DI DIO CONTRO I PECCATORI?

Paolo e la punizione di empi e ingiusti  (Rm 1,18-3,20)[1]

Il concetto dell’ira di Dio è assai presente sia nell’Antico (AT) che nel Nuovo Testamento (NT). L’argomento della nostra conversazione è stimolato dalla lettura di un testo piuttosto intrigante tratto dalla lettera ai Romani, che – come sappiamo – è la lettera più lunga, la più pensata e direi ponderata, e sicuramente la più teologica di Paolo. Nella sezione di Rm 1,18-3,20, infatti, si trova proprio la maggior frequenza del sintagma “ira di Dio”.

  1. La tesi della lettera ai Romani (Rm 1,16-17)

Iniziamo leggendo ciò che viene subito prima, per capire maggiormente lo sconcerto che può generare questa sezione di Romani. Appena prima di 1,18, Paolo annuncia la tesi della lettera, ovvero ciò di cui vuole parlare: «Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo, prima, come del greco. È la giustizia di Dio, infatti, che in esso si rivela di fede in fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà»  (1,16-17).

Questa è la tesi, che nei termini della retorica antica era detta “propositio”, in cui Paolo annuncia ciò di cui vuole parlare e che regge tutto lo svolgimento della lettera almeno fino a Rm 11. Scrive che il Vangelo «è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» e che «la giustizia di Dio (…) in esso si rivela». Sono dei termini molto forti: «Vangelo», «potenza di Dio», «salvezza», «giustizia di Dio»; hanno tutti un senso positivo e bello. Tra essi spicca il primo, che è anche il soggetto: “euangélion”[pronuncia: euanghèlion], il «Vangelo».

Se c’è un vocabolo che può riassumere l’intero discorso paolino della lettera ai Romani, è proprio il termine euangélion: è il Vangelo di Paolo. Chiaramente Paolo non scrive un vangelo come fanno i quattro evangelisti, i quali danno molto più spazio al fattore biografico, ossia ai fatti e ai discorsi di Gesù. Al contrario, se si sfogliano le lettere dell’Apostolo, si nota che il fattore biografico occupa pochissimo spazio: della vita di Gesù Paolo dice l’essenziale, mentre approfondisce ciò per lui è centro dell’euangélion, il Cristo crocifisso, morto e risorto pro nobis. Nel seguito della lettera sarà proprio questo aspetto soteriologico ad emergere come il centro del Vangelo per Paolo.

Scrive l’Apostolo che questo euangélion si esplica nel risvolto immediatamente teologico, poiché è «giustizia di Dio». Tale sintagma ha un ruolo chiave nello sviluppo della lettera e soltanto leggendo oltre, soprattutto la fine del cap. 3 (3,21-26), si capirà cosa intende Paolo col termine «giustizia di Dio». Inoltre il termine “giustizia” ci avvicina al termine “ira” o “collera”: in quale rapporto stanno la giustizia e la collera? Infatti questa giustizia – come si capirà dopo – non è quella che si esprime nella condanna del peccatore, bensì è la fedeltà di Dio alle sue promesse di salvezza, in base alla quale Dio, addirittura, rende giusto l’empio. Più avanti, in Rm 4,5, troviamo una delle frasi più forti e intriganti: Dio è «Colui che giustifica l’empio». È un’espressione davvero fortissima, che si presenta proprio come una definizione del tutto originale di Dio: così come è inserita potrebbe sembrare una citazione della Bibbia, ed invece essa non si trova mai nell’AT, dove, al contrario, si legge spesso che Dio è Colui che non lascia impunito l’empio (cf. ad esempio, Es 23,7).

Al di là di ogni distinzione di meriti e demeriti, di etnia e status religioso, questa giustizia non è di tipo giudiziale-retributiva, che, dato il peccato dell’uomo, sarebbe inevitabilmente punitiva; ma al contrario, è quella che rende giusto l’empio!

Quando poi nella propositio si parla di «giudeo e greco», si vuole indicare la totalità degli uomini destinatari del Vangelo. C’è tuttavia un “prima”, un “proton” del giudeo, ovvero il giudeo viene prima, poiché storicamente la rivelazione è arrivata prima ai giudei. Nello stesso tempo, però, il binomio «giudeo e greco» indica che sono messi sullo stesso livello, cosa non facile da far accettare ai giudei, persino ai giudei diventati credenti in Gesù (vedi sotto). Questo messaggio, in sintesi, si prospetta altamente positivo nel suo chiaro universalismo. Davvero questa è la “bella notizia”, è il nucleo del Vangelo, che si trova già, in nuce, in questi due versetti.

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 22-02-2015, rivista dall’autore, che ha preferito comunque conservare il tono colloquiale, tipico di una comunicazione orale.

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Francesco Maria Feltri

4. Credenti e laici di fronte alla Shoah – Una sfida per la fede e la cultura di Israele

Stipulando l’alleanza con Israele, Dio riceve il diritto di punirlo quando sbaglia; in cambio, però, gli assicura la protezione divina, promettendo di scatenare la sua ira contro il nemico che lo attacca. Invece la follia nazista massacrò milioni di innocenti senza che Dio facesse nulla per fermarla. Allora, come credere ancora in Lui? Come capire il Suo silenzio? Tutte le ipotesi proposte (Dio non sarebbe onnipotente; i morti sarebbero tutti martiri per la santificazione del Suo nome; la Shoah come punizione per chissà quali sbagli commessi; una tragedia enorme in vista di un bene maggiore; Dio avrebbe rispettato la libertà dell’uomo) non reggono. Forse l’unica proposta valida è di praticare la bontà gratuita, che – sola – offre all’uomo la forza di non cedere alla disperazione, ma di continuare a pensare che nell’uomo c’è comunque qualcosa di umano.

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CREDENTI E LAICI DI FRONTE ALLA SHOAH: UNA SFIDA PER LA FEDE E LA CULTURA DI ISRAELE

  1. Premessa biblica

Nel 1936 uscì in Germania Il messaggio dei profeti, di Abraham J. Heschel; per quello che riguarda il tema di questi incontri, si tratta di una delle opere più interessanti, in quanto il tema dell’ira di Dio occupa un posto centrale all’interno dell’analisi del profetismo biblico e della modalità tipicamente biblica (ebraica) di concepire il rapporto tra Dio e l’uomo.

Nelle pagine iniziali del suo testo Heschel insiste nel ricordare che i profeti non avevano un’idea di Dio, bensì una comprensione di Lui. Non si trattava, dunque, di filosofi che discutevano in astratto su un’entità con cui non avevano alcun dialogo, bensì di soggetti che pretendevano di aver incontrato il divino[1]. Questo fatto lascia aperto, ovviamente, il problema della vera profezia e dell’impostura, questione bruciante nel libro di Geremia (cfr. Ger 28), ma che solo marginalmente ci interessa in questa sede. Qui ci preme soprattutto ricordare che il profeta si presenta come colui che dà voce – e comunica – il sentire di Dio. Ed è questo il punto chiave, secondo Heschel: il profeta si presenta come l’interprete del pathos di Dio. Questi non è un essere muto, impassibile, lontano, distaccato, che si disinteressa di ciò che l’uomo compie. Il pathos, al contrario, è reazione alla storia umana, è segno del fatto che il comportamento e l’agire dell’uomo toccano Dio[2], il quale risponde manifestando amore o disapprovazione, a seconda delle circostanze.

Detto in altri termini, «il baratro che separa l’uomo da Dio è superato dal Suo pathos. […] Il pathos divino è come un ponte gettato sull’abisso che separa l’uomo da Dio»[3]. La differenza rispetto alla concezione filosofica greca non potrebbe essere più completa. Per Aristotele, ad esempio, la divinità è motore immoto, immobile e autosufficiente; ancor più, mentre non può certo subire qualcosa o essere influenzata da un’entità da Lei creata, a maggior ragione non prova emozioni, che sono tipiche degli uomini, per antonomasia inferiori al divino. Come conclude Heschel,

il Dio di Aristotele è il perfetto esempio di una divinità impassibile. Identificando la Divinità con la Causa Prima, con un qualcosa che è in sé stesso immoto, mentre ha la capacità di muovere tutte le cose, la divinità di Aristotele è senza pathos e senza bisogni. Riposando in sé stessa senza posa, la sua unica attività è pensare, e il suo pensare è pensare il pensiero. Indifferente a tutte le cose non ha interesse contemplare nulla all’infuori di sé. Le cose anelano a lei, e per questo sono messe in moto; esse però sono lasciate in balia di sé stesse[4].

Va precisato a questo punto (anche se, forse, il concetto era già implicito nel discorso svolto fino ad ora) che il pathos divino è di carattere etico. Non solo non è arbitrario (non è furia illogica o passione impetuosa), bensì è precisa risposta e reazione al comportamento morale dell’uomo. Ecco che può finalmente risultare comprensibile, in tutta la sua potenza teologica, il concetto di ira di Dio: è la risposta sdegnata e furiosa di Dio di fronte ad un comportamento inaccettabile, perché lesivo dell’altro uomo (prim’ancora che della dignità e dell’onore di Dio stesso). L’ira di Dio manifesta la sua indignazione per quanto accade sulla terra e per quello che gli uomini compiono gli uni verso gli altri. Quindi è il sintomo della Sua sollecitudine per l’uomo ed è l’esatto opposto dell’indifferenza verso il Male che accade:

La collera di Dio è una lamentazione. Tutta la profezia è una grande esclamazione; Dio non è indifferente al male! Egli se ne preoccupa continuamente; è personalmente toccato da ciò che l’uomo fa all’uomo. Egli è un Dio del pathos. Questo è uno dei significati dell’ira di Dio: la fine dell’indifferenza! Il messaggio della collera effettivamente è spaventoso. Ma coloro che sono stati spinti sull’orlo della disperazione alla vista di ciò che la malizia e la crudeltà possono fare, troveranno conforto nel pensiero che il male non è la fine, che il male non è mai l’apice della storia[5].

Scritte nel 1936 ma lette oggi, queste parole hanno qualcosa di profetico: sembrano la premonizione di qualcosa di tragico e di terribile. Infatti, la grande delusione che prova il credente, dopo averle ascoltate, sta proprio nel fatto che, contro i persecutori, che sono arrivati a compiere l’incredibile e l’indicibile, l’ira di Dio non si è per niente manifestata, al punto che un concetto fondamentale della teologia e della tradizione ebraica è stato smentito dai fatti.

A fianco dell’appassionata sollecitudine di Dio per l’uomo, che può generare la collera divina di fronte all’ingiustizia, una seconda categoria teologica che attraversa gran parte delle Scritture ebraiche, al punto da diventare centrale nella tradizione e nell’esperienza religiosa di Israele, è quella dell’alleanza sul Sinai (Es 24): un patto che la Bibbia presenta come un contratto bilaterale, in cui entrambi i soggetti s’impegnano a fare qualcosa. Israele, da parte sua, s’impegna a rispettare la Legge; se ciò non accadrà, si rovesceranno su di lui tutte le maledizioni descritte in modo analitico nel Deuteronomio e in altri testi.

[1] «Per i profeti Dio era reale in maniera travolgente e la sua presenza era schiacciante. Non parlarono mai di lui con distacco. […] Essi svelarono atteggiamenti di Dio più che idee su Dio» (A. J. Heschel, Il messaggio dei profeti, Roma, Borla, 1993, pp. 5-6. Traduzione di A. Dal Bianco).

[2] «Mai nella storia l’uomo è stato considerato con rilevanza paragonabile a quella presente nel pensiero profetico. L’uomo non solo è un’immagine di Dio; egli è l’eterna premura di Dio. L’idea di pathos aggiunge una nuova dimensione all’esistenza umana. Tutto ciò che l’uomo fa influisce non solo sulla sua vita, ma anche su quella di Dio, nella misura in cui è rivolta all’uomo. Il valore dell’uomo eleva l’uomo al di sopra dello stadio di semplice creatura. Egli è un compagno, un partner, ha un ruolo attivo nella vita di Dio» (A. J. Heschel, op. cit., p. 12).

[3] A. J. Heschel, op. cit., pp 14 e 16.

[4] A. J. Heschel, op. cit., p. 45.

[5] A. J. Heschel, op. cit., p. 88.

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