Provare per credere

1° Incontro Antonio Nepi Vai
2° Incontro Benedetta Rossi – Vai
3° Incontro Ermenegildo Manicardi – Vai

Antonio Nepi

1. Il dono come prova – Abramo e Sara

Abramo è il primo personaggio biblico la cui fede Dio mette alla prova. Nel loro rapporto le preoccupazioni del patriarca sono la discendenza e la terra promessa; invece la preoccupazione di Dio è proprio il rapporto stesso che quest’uomo ha con Lui: capirà Abramo che il Donatore è più importante del dono, oppure sbaglierà e attaccherà il proprio cuore al dono? Da un lato Abramo accetta la chiamata di Dio, che gli chiede di fidarsi di Lui, stipulando un’alleanza in cui è il solo Dio ad impegnarsi a rispettarla. Dal’altro lato più volte il patriarca non si fida e usa degli escamotages (una volta svendendo Sara; poi accettando di unirsi ad Agar per generare Ismaele come erede; scegliendo prima Lot e poi Eliezer come erede). Quando, finalmente!, nasce Isacco, Dio sembra chiedere un estremo atto di fede: il suo sacrificio. Abramo capisce che il Donatore è più importante del dono e accetta, affidandosi totalmente a Dio, che alla fine salva l’erede.

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IL DONO COME PROVA       

Abramo e Sara[1]

  1. La fede come prova

Il nostro tema è quello della figura di Abramo e di Sara[2] nell’avventura della fede. Dunque il nostro sarà un viaggio insieme ad Abramo, in cui egli impara il cuore di Dio e scopre il proprio attraverso varie prove che scandiscono i momenti cruciali della sua “traversata”.

Abbiamo scelto Abramo, perché proprio lui è il primo personaggio della Bibbia ad essere messo alla prova direttamente da Dio. Ci sono tante altre situazioni di prova; ad esempio, la prova del popolo di Israele nel deserto (Es 15,25; Dt 8,2.16). Oppure è l’uomo stesso, o anche il popolo, che mette alla prova Dio (Es 17,2; Nm 14,22). La figura di questo grande amico di Dio è comune alle tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam. Qualcuno, dall’incontro a Mamre tra Abramo e tre personaggi – che in realtà sono uno (Gn 18,1-16) –, ravvisa in costoro l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. Nel mondo islamico Abramo gode di un prestigio che nemmeno Maometto ha. Chiaramente Abramo non è il fondatore di queste tre religioni, ma è “ospitato” da queste, poiché è il paradigma di ogni credente: è stato il primo a essere messo alla prova, è stato il primo a credere. Questo verbo “credere” viene dall’ebraico ’āman, che significa “aggrapparsi, trovare stabilità” (Gn 15,6). Non è solamente un discorso mentale: è aggrapparsi ad una roccia per non cadere, è ancorarsi ad una base che sia incrollabile. Da questo deriva il nostro “amen” liturgico, che significa: “è vero, mi fido che sarà così”; oppure: “Dio non illude né delude…”. La prima volta che viene usato il verbo ’āman è proprio per Abramo.

Pertanto Abramo è il paradigma della fede. Egli si rivela in anticipo più grande di Mosè, che dubita (Nm 20,12). Ma che tipo di fede è la sua? Chi “abita” la Bibbia deve fare i conti con una realtà che talvolta è stereotipata. Spesso si ha in mente, in modo oleografico, la figura di un Abramo tranquillo, inossidabile, che non ha affrontato nessuna vera prova e al quale è andato tutto bene (un altro esempio è il re Davide, che l’opinione comune immagina perfetto con pubbliche virtù e senza vizi privati). Invece non è così: Abramo vive una fede inquieta, con alti e bassi, con luci e contraddizioni, paure; insomma, a tutto tondo come Davide o Simon Pietro o lo stesso Paolo.

Ci sono vari ritratti di Abramo che emergono dai racconti a lui consacrati, in particolare dalle sue azioni e discorsi, come ama esprimerli l’arte narrativa biblica. Ad esempio, a differenza di Noè (del quale si legge subito che era «uomo giusto e integro», Gn 6,9), Abramo scoprirà sé stesso solamente vivendo dalla pelle al cuore diverse prove. Chi c’è dietro a questa molteplicità di volti?

Innanzi tutto bisogna distinguere tra persona e personaggio. La persona è quella storica, che è vissuta in un determinato tempo; invece il personaggio è quello dipinto dal testo. Chiaramente quella persona è esistita, ma noi possiamo leggere soltanto il personaggio. Tanti dettagli fanno capire che questa figura è sì valorizzata per ciò che è stata nel suo tempo, ma soprattutto per il tempo di chi scrive. È un fenomeno intercettabile. Un paio di esempi: il “Nabucco” di Giuseppe Verdi inscena il re babilonese Nabucodonosor e Israele esiliato, ma in realtà rinvia al tempo del cigno di Busseto, che deplora l’oppressione austriaca. Analogamente Alessandro Manzoni ambienta i “I promessi sposi” nel 1600, ma dietro il regime spagnolo crittografa quello absburgico. Va detto che gli antichi non inventavano di sana pianta; o, se si vuole, inventavano nel senso etimologico di “ritrovare”, “rileggere”. È sbagliato pensare che Abramo non sia mai esistito. Il personaggio è valorizzato nella dimensione non soltanto storico-filologica, ma soprattutto per quel che può dirci oggi, per le istanze che suscita e per le speranze che ridesta. Questo per l’epoca in cui fu scritto nella sua ultima stesura, ma anche per noi credenti chiamati ad una “fusione di orizzonti”. Dietro Abramo leggiamo l’esperienza e la speranza di chi, nel VI secolo a.C, dovette fronteggiare i problemi dell’esilio babilonese. Inizialmente appariva il “campione” di chi era restato nella terra senza sperimentare l’esilio (cf. Ez 33,23). Poi lo divenne dei reduci dall’esilio di Babilonia (= Ur dei Caldei è un toponimo in voga solo dal VI secolo a.C.), i quali, come vecchia e nuova generazione, facevano il loro ingresso nella terra promessa[3].  Da quella storia vissuta Abramo è assurto dunque ad un orizzonte inclusivo, oltre le epoche, figura-tipo per tutti i successivi credenti.

Gli studi su Abramo abbondano. Lungi da noi offrire qui una bibliografia esaustiva. Ci limiteremo ai più recenti[4] e selezioneremo – privilegiando il racconto attuale, più che la sua preistoria – i brani più salienti relativi alle “crisi” del patriarca. Accanto ad Abramo non va dimenticata Sara. Lei appare l’elemento spesso scatenante delle prove di Abramo[5].

Innanzi tutto Abramo è un vecchio, senza figli, ma li sogna come un giovane. Egli trova questa giovinezza rinnovata come “ali di aquila” (cf. Sal 103,5) in un Dio imprevedibile, che lo forgia giorno per giorno al crogiuolo delle prove. Perciò si continua a parlare della “eterna giovinezza di Abramo”.

Un’altra caratteristica di Abramo è che è un inarrestabile itinerante, uomo più delle partenze che degli arrivi[6]. Consumato emigrante, lascia un paese che è suo, Ur del Caldei, per affrontare nuove terre, in particolare quella promessa di Canaan, dove da straniero troverà dei nemici.

Si potrebbe dire che Abramo è un “rabdomante”, in quanto va alla ricerca di pozzi d’acqua, ma soprattutto alla ricerca della sua verità. E impara strada facendo: non c’è la verità piena, ma deve gettarsi nell’avventura vertiginosa di Dio. Abramo ci preannuncia che il viaggio non è una delle componenti essenziali dell’esperienza di fede: ne è la componente! Apre alla novità, all’ulteriorità, allo stupore; e la meraviglia è la madre di ogni sapere, come diceva Aristotele. Il viaggio di Abramo non può essere paragonato a quello di Ulisse: costui torna a Itaca, dove ha una moglie che lo aspetta. Quello di Ulisse è un ritorno (“nostos”). Invece Abramo non torna a Ur dei Caldei; inoltre la moglie gli sta accanto, non lo aspetta come Penelope. E con la moglie vivrà un rapporto di una logica assai complessa. In ciò, sempre con le dovute distanze e affinità, è possibile trovare anche certi tragitti universali. Probabilmente Abramo assomiglia maggiormente a Enea. Con entrambi gli eroi, tuttavia, Abramo condivide distacchi e test, ma non sacrifica Sara come Didone, né sfiderà mai con hybris il suo Dio. Non fonderà città, né sarà mai re. Il Signore ama scegliere anti-eroi.

Se si volesse trovare il filo rosso della storia di Abramo, si noterebbe che due sono le preoccupazioni di quest’uomo vecchio: un figlio e la terra, che sono realtà connesse. Infatti per un antico ciò che rappresentava il futuro era un figlio, colui che avrebbe perpetuato il suo nome. Addirittura c’è stato chi, giocando forzatamente sulle parole, ha sostenuto la seguente tesi: poiché il figlio maschio (ossia colui che porta avanti la linea paterna) si dice zākār e il ricordo si dice zēker (dunque sono presenti le stesse consonanti), allora il figlio maschio è quello che garantisce la memoria, la fama. Ovviamente un figlio permette anche un baluardo, che è quello di essere forte e difeso, e, soprattutto, permette una terra. Un valore affettivo ed effettivo, sul piano economico (Sal 127). Così come una donna che vuole essere considerata “realizzata” (in ebraico “costruita”, bānāh) deve procreare almeno un figlio (bēn), altrimenti non vale nulla, è da rottamare, proprio come si sente Sara (Gn 16,1). Queste due grandi preoccupazioni sono l’ambito in cui si gioca l’evoluzione di Abramo, che intraprende, parafrasando il felice titolo di A. Wénin, “il tirocinio della fede”.

Se da un lato abbiamo visto le preoccupazioni di Abramo, dall’altro ci domandiamo: nella storia con Abramo, qual è la preoccupazione di Dio? È il rapporto sorgivo che Dio ha con Abramo e, correlativamente, il rapporto che Abramo ha con Dio. Ossia: figlio e terra sono doni di Dio ed è Dio che li dà. Tutto si gioca nel momento in cui l’uomo gestisce tale dono; anche la nostra vita si gioca lì. Cosa è più importante: il dono oppure il donatore? Anticipiamo subito che la prova di Abramo è proprio questa: sbagliare bersaglio, ovvero dimenticare che c’è un Donatore che dona sempre e così avvinghiare il proprio cuore al dono. Un esempio banale, ma eloquente: quando in un rapporto di coppia uno dei due dice all’altro: «Tu sei il mio tutto, senza di te non posso vivere», si tratta di un “tutto” relativo. Quell’amore è bello; però, se quella persona diventa un idolo e prende il posto di Dio, si sbaglia bersaglio. La prova rientra in questa paziente e pedagogica trama divina. Dio non rivela tutto e subito, intesse rispettando i tempi.

Dinanzi al bivio della prova, l’uomo/donna ha la doppia chance di “rischiare Dio” o di neutralizzarlo. Quest’ultima scelta genera la mormorazione, che si verifica quando l’uomo vuole imporre i suoi ritmi e le sue scadenze a Dio. Il verbo è tipico dell’Israele nel viaggio del deserto (Es 15-18); alcuni rinviano la sua etimologia a “latrare” (lûn), come se il popolo abbaiasse, confondendosi con gli ululati solitari contro Dio; il NT parlerà del “grugare/tubare” dei piccioni e dei colombi (diagongyzein). Un personaggio che ribalta questo brontolìo ricattatorio è, ad esempio, Giuditta. Ad un certo punto del suo racconto si legge che gli Israeliti non si fidano più di Dio e mormorano contro di Lui, poiché temono che non li salverà; allora decidono di sfidare Dio: se Egli non salverà il popolo entro cinque giorni, gli Israeliti passeranno al nemico. Allora Giuditta li provoca, domandando chi siano loro da imporre scadenze a Dio (Gdt 7-8). Ecco la mormorazione, che è la risposta negativa alla prova. Infatti l’uomo può vedere il test come qualcosa che aiuta la fede, accettandolo sebbene non lo capisca; oppure può reagire mormorando e mettendo Dio sotto processo. Nel Siracide si legge: «Figlio, se vuoi seguire Dio, preparati alla prova» (cf. Sir 2,1). Ogni persona non deve rifuggire dai bivii impegnativi della vita, poiché la prova è interna alla fede. La fede non può non essere test, crogiuolo. Il credente chiede a Dio la grazia di non soccombere nella prova.

Però la prova fa parte della pedagogia e nell’antico Israele Dio viene visto come un educatore, che mette alla prova la persona per il suo bene, non per farla soffrire né per il proprio divertimento. L’educazione è vista come test: il credente deve superare una difficoltà. Il termine “ascesi” significa “allenamento”: il credente deve sottoporre il fisico ad una prova di sforzo. Il test, dunque, è intrinseco alla fede e permette ad ogni credente, come ad Abramo, di maturare la consistenza umana e spirituale, imparando lo spossessamento di sé. Il contrario è il peccato delle origini: c’è Dio, ma l’uomo toglie la “D” e rimane solamente “io”. È questo l’errore della prima coppia nell’Eden: prendere il posto di Dio. Abramo non mormora mai esplicitamente, non critica mai Dio. Forse un cenno di malinconico disincanto si trova in Gn 15,1-3 (della serie: “Ma Dio, continui a portarmi in giro,

[1] Testo della conferenza tenuta a Carpi il 05-02-2017, rivisto dall’autore.

[2] Nel corpo del testo utilizzeremo indistintamente questi nomi, senza tener conto del loro cambiamento che avviene a partire da Gn 17,5.15,  dove appunto Abram si tramuta in Abraham e Saray in Sarah.

[3] A. MÜHLING, Abraham als Identifikationsfigur des Judentums in der Zeit des Exils und des Zweiten Tempels (FRLANT 236; Göttingen: Vandehoeck 6 Ruprecht, 2011).

[4]  J. MARTIN-ACHARD, Actualité d’Abraham (Neuchatel-Paris 1969); T. RÖMER (éd.), Abraham, nouvelle jeunesse d’un ancêtre (Genève 1997); W. VOGELS, Abraham. L’inizio della fede. Genesi 12,1-25.11 (Cinisello Balsamo 1999); J.L. SKA, “Essai sur la nature et la signification du cycle d’Abraham” (Gn 11,27; 25,11), in A. WÉNIN (éd.), Studies in the Book of Genesis (BEThL 153; Louvain 2001), 367-389; Idem, Abramo e i suoi ospiti (Bologna 2002); F. GENTILONI, Abramo contro Ulisse (Torino 2003); AA.VV., Abraham, le père de la promesse (Lumière et Vie 266; 2005); T. E. FRETHEIM, Abraham. Trials of Family and Faith (Columbia SC 2007). A. BUCKENMAIER, Abramo, Padre dei credenti (Genova-Milano 2011); J.L. SKA, “Abraham between History and Poetry”, HBAI 3 (2014) 24-42;. BLENKINSOPP, The Story of a Life (Grand Rapids MI 2015). A. WÉNIN, Abraham ou l’apprentissage du dépouillement. Lecture de Genèse 11,27-25,18 (Paris 2016); J. GROSSMANN, Abram to Abraham. A Literary Analysis of the Abraham Narrative (Bern-New York-Oxford 2016).

[5] T. SCHNEIDER, Sara la madre delle nazioni (Torino 2015); vedi pure S. TEUBAL, Sarah the Priestess, The First Matriarch of Genesis (Athens OH 1985). Ph. TRIBLE, “Genesis 22. The Sacrifice of Sarah”, in A. BACH (ed.), Women in the Hebrew Bible. A Reader (New York 1999) 271-292.     

[6] K. DEUERLOO, “Narrative Geography in the Abraham Cicle”, OTS 26 (1990) 48-62: J.M. POIRIER, “De campement en campement. Abram alla au Néguev (Gn 12,9); le théme de la marche dans le cicle d’Abraham” BLE 109 (2008) 3-16; F. MANINI, “Piantò la terra, costruì un altare, invocò il nome del Signore (Gen 12,8). La provvisorietà e la presenza di Dio”, PSV 64 (2011) 15-21.

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Benedetta Rossi

2. La prova: provocazione, dono e rivelazione

Nel libro dell’Esodo in più momenti Dio mette alla prova il popolo di Israele. Una prova che è legata al dono (dell’acqua; della manna): come viene letto il dono di Dio? La prova può essere qualcosa che educa il desiderio (della manna si può raccogliere il necessario per sfamarsi quel giorno; non la si può accumulare, come dubitando che Dio non la invierà il giorno successivo); la prova può voler fare capire a Israele che non può darsi la vita da solo, ma la riceve in dono da Dio. Però Israele è sempre libero di scegliere, persino di rifiutare Dio nel deserto, e quindi di morire! Talvolta è Israele a mettere alla prova Dio, chiedendoGli più volte lo stesso segno. Alla fine per Israele la prova è il cammino stesso nel deserto: il guadagno della prova è la sapienza che si riceve progressivamente nel corso del cammino e della prova.

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LA PROVA: PROVOCAZIONE, DONO E RIVELAZIONE[1]

  1. INTRODUZIONE

Nel Primo Testamento, andando a vedere i termini ebraici che significano “prova” (“massah”, plurale: “massoth”) e “provare” (“missah”), si scopre che il verbo “provare” descrive una relazione tra due soggetti.

Nella Scrittura ci sono uomini che mettono alla prova altri uomini, ad esempio col tormento. Prendiamo una prima citazione dal libro della Sapienza (scritto in greco), in cui gli empi dicono: «Proviamo il giusto, mettiamolo alla prova, il giusto che per noi è un incomodo» (cf. Sap 2,12a). Perché vogliono provare il giusto con la sofferenza? «Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto» (2,17-18a).

Nel Primo libro dei Re c’è una scena famosa, in cui la regina di Saba si muove «per mettere alla prova» Salomone: «La regina di Saba sentì la fama di Salomone e venne per metterlo alla prova con enigmi» (cf. 1 Re 10,1). La prova in questo caso conferma una sorta di scetticismo che la regina provava; infatti al v. 7 ella rivela a Salomone: «Io non credevo a quanto si diceva, finché non sono giunta qui e i miei occhi non hanno visto». Di fronte ad una perplessità, la prova conferma (o disconferma) una presupposizione. Il risultato è l’acquisizione di una conoscenza. Quindi gli uomini mettono alla prova altri uomini per conoscere se qualcosa che essi dicono – oppure che si dice su di loro – sia effettivamente vero.

Alla prova, che ha una connotazione sapienziale, è legato un aumento di conoscenza, la ricerca di un dato tangibile, che consente di conoscere. “Provare/mettere alla prova” significa sottoporre qualcosa ad un controllo, ad una verifica attraverso qualcosa di tangibile e di verificabile. Tutto ciò è per noi ben comprensibile, poiché rientra anche nella nostra esperienza. Questo stesso lessico, tuttavia, è impiegato per parlare della relazione tra Dio e il popolo: da una parte, Dio mette alla prova il popolo; dall’altra, il popolo mette alla prova Dio. Il lessico è lo stesso.

Da qui la domanda: come tali connotazioni della prova (lo scetticismo, l’aumento della conoscenza, il testare se ciò che si dice di qualcuno è vero oppure no) entrano nella relazione tra Dio e il popolo? La prova, quando si gioca nel rapporto tra Dio e Israele, assume alcuni connotati supplementari, che cercheremo di esplorare: cosa significa dire che “Dio mette alla prova il popolo”? È un Dio scettico? Oppure è un Dio sadico come i malvagi del libro della Sapienza, che vogliono mettere alla prova il giusto per vedere se resiste? La prova è forse un test di resistenza estrema nel deserto, per vedere se il popolo è abbastanza forte da sopravvivere?

Cercheremo di entrare in tali questioni, mostrando le implicazioni di tale prova e le sue cause; esploreremo cosa accade dentro al cuore del popolo messo alla prova e che, altre volte, mette alla prova Dio.  Probabilmente è questa la parte più interessante: da dove nasce la prova? E qual è il suo fine?

Innanzi tutto vedremo come Dio mette alla prova Israele, e cosa ciò significhi. Poi vedremo come Dio si lascia mettere alla prova da Israele.

  1. DIO METTE ALLA PROVA ISRAELE

2.1.  Le narrazioni di Esodo

I primi dati testuali che abbiamo provengono dalle narrazioni del libro dell’Esodo.

All’interno del libro dell’Esodo siamo nella prima tappa del cammino dopo l’uscita dall’Egitto. In Es 15,1-18 si trova il canto di Mosè, seguito dall’indicazione della danza delle donne e del canto di Miriam (vv. 20-21). Quindi prima si trova l’esultanza dopo il passaggio del mare e l’uscita dall’Egitto; poi, in 15,22, si narra che gli Israeliti si mettono in cammino nel deserto. Questa prima unità del libro dell’Esodo arriva fino a Es 18 e mostra le tappe attraverso le quali Israele arriva al monte Sinai (Es 19,1-2); seguirà il dono della Legge.

In questa sezione di Esodo tre episodi chiave, collegati tra di loro, mettono a tema la questione della prova; probabilmente non è un caso la loro collocazione all’inizio del cammino nel deserto. Si tratta di Es 15,22-26 (la prova delle acque di Mara); Es 16 (il dono della manna); Es 17,1-7 (la sosta a Refidìm, conosciuta come “la ribellione di Massa e Meriba”). Questi racconti mettono a tema la così detta “mormorazione di Israele”, espressione di un malcontento che appare – a dire il vero – ben giustificato, in quanto causato da privazione di elementi vitali: la mancanza di acqua e di cibo.

2.1.1.  La prova delle acque di Mara (Es 15,22-26)

Il racconto della prova in Es 15,22-26 è per molti aspetti un racconto programmatico, non solo perché apre il cammino di Israele nel deserto: «15,22Mosè fece partire Israele dal Mar Rosso ed essi avanzarono verso il deserto di Sur. Camminarono tre giorni nel deserto senza trovare acqua. 23Arrivarono a Mara, ma non potevano bere le acque di Mara, perché erano amare. Per questo furono chiamate Mara. 24Allora il popolo mormorò contro Mosè: ‘Che cosa berremo?’. 25Egli invocò il Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce. In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova. 26Disse: ‘Se tu darai ascolto alla voce del Signore, tuo Dio, e farai ciò che è retto ai suoi occhi, se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi, io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitto agli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!’» (Es 15,22-26).

Dopo tre giorni di cammino nel deserto, Israele non ha ancora trovato acqua. Quello che accade è una sorta di beffa: a Mara c’è acqua, ma è imbevibile, perché amara (in ebraico “mar”, da cui il nome “Mara”). Allora il popolo mormora contro Mosè. La mormorazione non coincide con una ribellione, che mira ad abolire la leadership di Mosè. La mormorazione indica un malcontento e diventa una cifra, quasi stereotipata, del cammino di Israele nel deserto. La questione centrale in gioco è la vita: come si può sopravvivere nel deserto senza acqua? In Geremia 17,6 si legge che il deserto è «una terra di salsedine», ovvero una terra dove nessuno può vivere. Dunque è un luogo in cui la vita è impossibile. Come si fa a vivere in un luogo dove non si può vivere?

All’interno di questo episodio l’elemento decisivo è il cambiamento prodotto da Mosè su suggerimento di Dio. Il dono di Dio in questo caso non è “diretto”: Dio indica a Mosè cosa fare; Mosè esegue l’ordine di Dio e l’acqua diventa bevibile. L’acqua amara che diventa dolce sarà ciò che consente al popolo di sopravvivere.

Proprio qui si inserisce in Es 15,25-26 il tema della prova che, tuttavia, non sembra aver nulla a che fare col racconto che precede: qual è il nesso tra la prova e la previa mormorazione degli Israeliti, seguita dal cambiamento dell’acqua da amara in dolce, con la conseguente possibilità di sopravvivere nel deserto?

[1] Trascrizione della conferenza tenuta a Carpi il 19-02-2017, rivista dall’autrice.

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Ermenegildo Manicardi

3. Il Maestro messo alla prova: Gesù arriva nel tempio di Gerusalemme

La tentazione riguarda sempre l’identità della persona. Infatti il demonio così tenta Gesù: «Se tu sei il Figlio di Dio…»; e Gesù risponde stando saldo nella propria identità: «Sta scritto…». Durante tutta la sua vita Gesù è messo alla prova, persino dai discepoli più vicini. Nel tempio di Gerusalemme Gesù si scontra con persone dalla coscienza “inquinata”, che lo mettono alla prova e che non accolgono le sue risposte, per quanto esse appaiano di una verità irresistibile. Dunque Gesù deve affrontare una certa impotenza; ma deve comunque rimanere ricco di fiducia nell’altro, dando sempre un messaggio di positività. Per fare ciò egli non si lascia scoraggiare, con pazienza e costanza, usando razionalità e chiarezza. E questo lo porta alla scoperta di persone che, invece, lo ascoltano oppure che gli fanno addirittura fare degli “scatti in avanti” nella sua predicazione.

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IL MAESTRO MESSO ALLA PROVA NEL TEMPIO DI GERUSALEMME[1]

  1. TENTAZIONE E IDENTITÀ

1.1.  La coppia primordiale in Eden e Gesù nel deserto

La tentazione riguarda sempre l’identità di una persona e il modo in cui un individuo si autocomprende.

Possiamo renderci conto bene di questa possibile tesi lavorando con attenzione alla prima lettura e al Vangelo di questa prima domenica di Quaresima (Gn 2,7-7.3,1-7; Mt 4,1-11). Il comportamento di Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden e quello di Gesù nel deserto possono essere pensati in un dittico istruttivo. Si tratta di situazioni parallele ed antitetiche. Da una parte c’è il giardino in tutta la sua floridezza, dall’altra c’è il deserto con la sua aridità. Da una parte ci sono Adamo ed Eva e il dramma si consuma in una relazione reciproca, che alla fine diventa infelice e pericolosa. I due “coniugi” riescono a farsi del male a vicenda: la loro relazione è molto importante, ma naufraga proprio di fronte alla sfida della tentazione. Dall’altra parte c’è Gesù, che è da solo, ma riesce a custodire la sua integrità.

L’elemento identico in entrambe le situazioni è la presenza del tentatore. Nell’Eden si presenta come un serpente, nel deserto come diavolo, ossia – come dice la parola greca dià-bolos – “colui che si mette in mezzo” e intrappola le persone. L’elemento permanente nel variare delle situazioni è la figura del tentatore e già questo è un messaggio nitido: con la tentazione non si scherza; la tentazione c’è e la si deve affrontare.

L’esperienza della tentazione è così centrale nell’esperienza umana da essere ricordata anche nel “Padre Nostro”, nel quale si trovano tutti gli aspetti essenziali: il Padre; il fatto che sia “nostro”; il Regno; il nome di Dio e la sua volontà; il pane quotidiano degli uomini e i loro peccati. Ed infine si trova: «E non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13a), oppure nella traduzione che conosciamo tutti a memoria e più vicina al testo latino: «E non ci indurre in tentazione».

Una visione irriflessa e troppo immediata della nostra situazione ci porta a pensare che la tentazione sia prodotta dalle cose: si desidera qualcosa che appare molto appetibile e gratificante. Spesso ci sembra che la tentazione sia data da un oggetto che cattura l’attenzione e che ci appare desiderabile, mentre esiste anche una legge che ci proibisce di averlo, oppure che ci porterà ad averlo soltanto a caro prezzo. In realtà la tentazione non riguarda le cose, ma sempre l’identità di una persona e il modo in cui l’uomo si autocomprende.

Se confrontiamo con profondità il racconto della Genesi e il racconto delle tentazioni di Gesù, vediamo che entrambi trattano la questione dell’identità. Il demonio suggerisce a Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» (Mt 4,4). La tentazione riguarda l’identità di colui che è tentato: «Sei o non sei il Figlio di Dio? Se lo sei, mostralo trasformando le pietre in pane». Anche nel racconto genesiaco è di nuovo in questione l’identità. Infatti allo stesso modo in Genesi il serpente si introduce domandando: «È vero che non potete mangiare degli alberi del giardino?». Al cuore della tentazione il serpente mette esattamente la questione dell’identità. Eva ribadisce al serpente, che ha insinuato il divieto di mangiare degli alberi del giardino, ripetendo piuttosto bene il comandamento di Dio: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’» (Gn 3,2-3). Il serpente però getta Eva nell’incertezza, presentandole la possibilità di raggiungere una più significativa identità: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gn 3,4-5). La prospettiva ventilata a Eva – «sareste come Dio» – è una questione identitaria esattamente come la suggestione rivolta a Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane».

La tentazione riguarda dunque sempre l’identità della persona. Si desidera una cosa in forza della quale si pensa di potersi sentire “migliori”. È per tale motivo che si può essere portati a cedere.

Adamo ed Eva pensano che Dio li abbia imbrogliati e che, se la loro identità si “allargherà” tramite il «conoscere il bene e il male», allora saranno come dèi. Noi non siamo vittime di piccole cose, bensì facciamo fatica ad accettare l’identità che abbiamo e vorremmo dilatarla. La tentazione è la scelta di un surrogato, di una espansione che non è autentica. «Se mangeremo il frutto, allora sì che diventeremo qualcosa di più grande», pensano Eva ed Adamo «perché, con quella espansione, acquisteremo una identità superiore e saremo veramente persone che valgono!».

Il demonio prova a realizzare la stessa dinamica con Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane… Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù, e gli angeli verranno a prenderti…». È una sfida a sperimentare una identità maggiorata, più profonda, più ambiziosa. La grandezza di Gesù, che vince la tentazione, consiste nell’accettare con schiettezza l’identità ricevuta da Dio. La sua risposta è sempre segnata dal riferimento alla realtà voluta da Dio: «Sta scritto…». Gesù esce dalla prova rimanendo legato alla realtà come gliela comunica il Padre attraverso le Scritture.

1.2.  Prospettive sul nostro tema

L’oggetto specifico del tema affidatoci è “Gesù messo alla prova quando arriva nel tempio a Gerusalemme”. Forse conviene indicare la prospettiva dei temi che intendiamo trattare.

  1. Nel tempio di Gerusalemme, Gesù si confronta – ancora una volta e in maniera decisiva – con la presenza del male e con la sua incredibile potenza pervasiva. Gesù non si trova, per così dire, di fronte a un demonio personificato, così come accade in tanti precedenti esorcismi. Egli si confronta successivamente con diversi gruppi. Ci sono le diverse classi del sinedrio, come i sacerdoti, gli scribi, gli anziani. Ci sono gruppi “ideologici” segnati da particolari filosofie e concezioni di vita come i farisei. Ci sono le élites raffinate della nobiltà e dell’alta e colta borghesia, quali sono i sadducei. Nel tempio il demonio non è direttamente visibile in scena, ma Gesù si confronta con la presenza del male e della sua incredibile potenza, un male che è mediato da persone.
  2. Il male è un inquinamento delle coscienze, che non riescono più a funzionare validamente, come è il caso degli avversari di Gesù a Gerusalemme. Quando Gesù chiede da dove veniva il battesimo di Giovanni Battista, i capi del sinedrio rispondono: «Non lo sappiamo». Essi in realtà sanno fin troppo bene di cosa si tratta. Ormai era per loro era troppo pericoloso dichiararlo adesso: lo hanno lasciato uccidere da Erode e quindi non possono più dire che Giovanni veniva da Dio. Nel deserto Gesù si era trovato di fronte alla figura di Satana, così come nel giardino dell’Eden Eva si era trovata a parlare con il Serpente. Nel tempio di Gerusalemme non ci sono altri rispetto agli interlocutori umani. In concreto, però, si tratta di gente che non funziona più bene: sono persone piena di un inquinamento che contorce le coscienze e non li fa essere liberi di fronte alla verità.

[1] Conferenza tenuta a Carpi il 05-03-2017.

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