Cenni sulla preghiera cristiana

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

La recente quattro giorni del clero a San Zeno di Montagna, in particolare la testimonianza di fr. Luca della Piccola Famiglia dell’Annunziata (Bologna), ha singolarmente coinciso con la pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Postsinodale del Santo Padre, Verbum Domini (nov. 2010), indirizzata all’Episcopato, al Clero, alle Persone Consacrate, ai Fedeli Laici, sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. In questo documento, Benedetto XVI ci dona un robusto invito per un un nuovo slancio nel rapporto con la Parola di Dio. Sono le due cose che hanno orientato la mia breve riflessione – senza pretese – sulla preghiera.
Parto da alcune constatazioni, cose che sono sotto gli occhi di tutti. La preghiera, per molti cristiani, rimane e si limita prevalentemente a quella comunitaria, es. la S.Messa domenicale, i pellegrinaggi, ecc. La preghiera personale, individuale è in difetto preoccupante, in uno stato infantile, al massimo adolescenziale, in balia cioè, degli umori del momento. Nell’insieme mediocre.
C’è una tendenza, in particolar modo nel mondo giovanile, ad abbandonare le formule recitate a memoria, a confondere la preghiera col «pensare a Dio», a fare di Dio il proprio confidente a cui si raccontano speranze e delusioni. Se va bene, «pregare» vuol dire chiedere, pretendere delle cose da Dio. Questo può giungere, a volte, fino a «tentare Dio», quel tentare che si esprime grosso modo così: «se ci sei, se sei buono, fallo vedere!». La preghiera può essere frutto di un certo narcisismo, di una commistione con rituali orientaleggianti, può diventare un sincretismo. La preghiera ancora non rientra fra le attività proprie della fede se non marginalmente perché, si dice: «anche il lavoro è preghiera!».
Meraviglia sempre la frequenza con la quale i cristiani stessi, interpellati a proposito della loro preghiera facciano riferimento al cielo e ai monti. La cosa sembra rimandare alle vacanze come tempo propizio per la preghiera. Sarà vero, ma non mi risulta.

Il salmo 8,4-10 recita:
«4 Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate,
5 che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?                                           
6 Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato:
7 gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi;
8 tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna;
9 Gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare.
10 O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra».

Lo spettacolo del creato riconduce l’uomo come creatura privilegiata verso il suo Creatore, una creatura però soggetta ad abbagli. Prendiamo un’altra pagina biblica famosa quanto elegante:

«1 Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere. 2 Ma o il fuoco o il vento o l’aria sottile o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo     considerarono come dei, reggitori del mondo. 3 Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza. 4 Se sono colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati. 5 Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore. 6 Tuttavia per costoro leggero è il rimprovero, perché essi forse s’ingannano nella loro ricerca di Dio e nel volere trovarlo. 7 Occupandosi delle sue opere, compiono indagini, ma si lasciano sedurre dall’apparenza, perché le cosa vedute sono tanto belle. 8 Neppure costoro però sono scusabili, 9 perché se tanto poterono sapere da           scrutare l’universo, come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?» (Sap 13).

La contemplazione può sfociare nell’affermazione che esiste un creatore, ma basta contemplare il creato per pregare? Se si limita a rimanere ancorata alle meraviglie della natura, la preghiera cristiana rimane sull’orlo del paganesimo; se non fa un passo verso il Creatore, l’uomo rimane impigliato in un’immagine di Dio che ricava da ciò che vede, un’immagine che per il cristiano ha ancora dei contorni confusi. La creazione non insegna la preghiera cristiana!

Dice con chiarezza e suggestione S.Agostino commentando Gv 1,12: «Per mezzo del Verbo sei stato fatto, ma è necessario che per mezzo del Verbo tu venga rifatto». In questa affermazione c’è l’allusione al dono della vita e a quello del battesimo. Qui vediamo delineati l’identità del cristiano e il suo cammino, come quello della Chiesa e del suo cammino. La loro realtà è definita dall’accoglienza del Verbo di Dio, della sua persona e delle sue parole, le parole del Vangelo. Per «essere rifatti» occorre incontrare il Signore e questo contatto si attiva quando la sua parola è ascoltata. La preghiera è apertura a un incontro, alla comunione, è una relazione nell’amore, perché Dio è amore (cf. 1Gv 4,8.16). Nella relazione interpersonale devono stare insieme parola e ascolto. La preghiera cristiana appare generalmente una preghiera a un polmone solo, come direbbe Giovanni Paolo II. é tempo, è urgente e vitale recuperare l’altro polmone, l’ascolto che ha una funzione primaria se si vuole sapere a chi ci si rivolge e cosa si può domandare a colui a cui ci si rivolge.

Allora la preghiera cristiana è innanzitutto ascolto per accogliere e riconoscere una presenza. L’operazione è semplice, ma non per questo facile: richiede silenzio interiore e sobrietà. Dio parla usando un linguaggio umano: é un’affermazione fondamentale che attraversa tutta la Scrittura. é una verità grande senza la quale non potremmo avere alcun contatto, o relazione personale con colui che agisce liberamente e con gratuità.

Famosa quella pagine del Deuteronomio in cui Mosè dice:

«32 Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità dei cieli all’altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? 33 Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?».

In questo modo, Dio fa di Israele il popolo dell’ascolto, un ascolto che precede la fede e va svelando la sua vocazione permanente: la chiamata ad ascoltare. Non a caso la preghiera ebraica è ritmata dallo «Shemà Ysra’el» (Dt 6,4-9: Ascolta, Israele!) che appare in varie forme nella Toràh.
La preghiera dell’uomo si rivolge istintivamente al cielo, ma l’uomo non sa a chi si rivolge se non gli è rivelato. Dio si fa conoscere parlando; parlando scende nell’uomo. Il vero orante, a partire da Abramo (cf. Gen 12,1) è colui che ascolta, colui che presta orecchio a Dio.
Per questo è sempre attuale il rimprovero del profeta Samuele a Saul che vuol fare di testa propria:

«22 Samuele esclamò: “Il Signore forse gradisce gli olocausti e i sacrifici come obbedire alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è più del grasso degli arieti”» (1Sam 15,22).

Se per Dio si potrebbe dire che «in principio è la parola» (Gv 1,1), per l’uomo si deve dire: «in principio è l’ascolto». In questa prospettiva, l’apertura della lettera agli Ebrei riassume e puntualizza:

«1Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, 2 in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche i mondi. 3 Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola» (1,1-3).

Ormai il nostro ascolto deve andare al Signore come il Padre chiede e comanda: «questi è mio figlio, l’amato, ascoltatelo!» (Mc 9,7).

La preghiera cristiana è innanzitutto «responsoriale», dialogante. Scrive ancora s.Agostino: «la tua preghiera è la tua parola rivolta a Dio. Quando leggi è Dio che ti parla, quando preghi sei tu che parli a Dio» (Agostino, Enarrat. in Ps 85,7; cf. prima di lui Cipriano, Ad Donatum, c.15; Girolamo, Ep. 22,25). Ma noi siamo sempre tentati di fissarla, chiuderla, in «Ascolta, Signore, perché il tuo servo parla».
L’ascolto è preghiera perché riconosce il primato dell’iniziativa di Dio; non è passività, ma risposta attiva, azione per eccellenza della creatura nei confronti del suo Creatore e Signore. Ha una certa dose di verità quell’affermazione di Cassiano con cui dice che: «Non c’è maestro di preghiera. La preghiera ha in se stessa il suo Maestro. Dio infatti dona la preghiera a chi gliela chiede» (G..Climaco, Scala Paradisi, 28° gradino). La preghiera non è una tecnica, non è un metodo, non ha il compito di liberarci da noi stessi, ma di ricondurci a noi stessi. La preghiera richiede di riconoscere la propria distanza, la propria condizione di esilio da colui che ci ha creati amandoci. E se è vero che il volto dei fratelli ci fa conoscere il nostro volto, molto più ce lo fa conoscere il volto di Dio (cf. Gc 1,22-24).
Quando Dio chiede al giovane Salomone di presentargli delle richieste il giovane re replica domandando un «Lev Shomea’» (cf. 1Re 3,9), un cuore capace di ascolto, letteralmente, «un cuore ascoltante», un cuore docile. Quel passaggio biblico prosegue dicendo «e al Signore piacque che Salomone avesse domandato questo»(1Re 3,10). é la domanda primordiale; la necessità prima e fondamentale. S.Paolo dirà e non a caso «e pìstis ex akoés», «fides ex auditu» (Rm 10,17), cioé la fede viene dall’ascolto. Si delinea così il movimento complessivo della preghiera cristiana: dall’ascolto alla fede, dalla fede alla conoscenza di Dio e dalla conoscenza all’amore, risposta ultima all’amore di Dio, gratuito e preveniente.

Dove non è chiaro il primato dell’ascolto di Dio, la preghiera tende a diventare un’attività umana costretta a nutrirsi di atti e formule in cui il singolo cerca la propria soddisfazione, alimenta un certo narcisismo spirituale, un surrogato della propria docilità alla volontà di Dio. Oppure la preghiera diventa una disciplina di concentrazione che forse elimina le distrazioni, ma non apre realmente a un’attenzione orante verso il Signore che parla (cf. Dt 4,32s.) e che ama (cf. Dt 7,7s.): che parla perché ama.

La preghiera cristiana ha come tratto distintivo di essere anzitutto solitaria:

«5 Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6 Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». (Mt 6,5s.).

Scrive l’autore della prima lettera di Pietro: «2 Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza: 3 se davvero avete già gustato come è buono il Signore» (2,2). L’esistenza del battezzato non è più terrestre, ma celeste; non più “psichica”, ma spirituale, non più umana, ma divina. In lui abita, per grazia, lo Spirito che ne ispira «il volere e l’operare» ( Fil 2,13) secondo la logica della vita nuova.

Scrive ancora la lettera agli Ebrei:

«Quelli che sono stati una volta illuminati e hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e le energie del mondo futuro» (6,4s.).

Qual ’è allora il cibo nuovo del battezzato? Nel passo di Pietro si allude alla «Parola di Dio». Senza ascoltarla, meditarla, ripercorrerla incessantemente cioè senza nutrirsene (poiché essa è cibo e bevanda: cf. Dt 8,3; Is 55,1s.) il cristiano non può nè vivere, né  maturare.
A questo è certamente legata anche l’Eucarestia come scrive Teodoro di Mopsuestia: «Dopo aver ricevuto la nascita sacramentale mediante il battesimo, vi presenterete al nutrimento immortale di cui vi nutrirete come di alimento corrispondente alla vostra nascita» (Hom. XV,467; cf. XVI,567).

Scrivendo ai Tessalonicesi, Paolo ricorda che attraverso l’annuncio del Vangelo, Dio chiama al suo regno e alla sua gloria. Poi aggiunge:

«proprio per questo – lui, Silvano e Timoteo – rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma quale veramente è, come parola di Dio che opera in voi credenti» (2,12).

L’espressione «Parola di Dio» appare più di una volta in questa lettera e vuole sottolineare che la Parola ha Dio come autore, origine e proprietario. Essa «opera in voi credenti». Cosa operi dal contesto è chiaro: una forte adesione al Signore, l’imitazione/emulazione delle Chiese perseguitate che sono in Giudea, la docilità ai capi della comunità, la temuta della persecuzione (cf. 1Tess 2,14s.). Tutta all’opposto si trova l’empietà perché l’empio «si illude con se stesso nel ricercare la sua colpa e detestarla» (Sal 36,3); ma Dio solo «conosce i segreti del cuore» (Sal 44,22) e può soccorrerci verso la verità; «Signore tu mi scruti e mi conosci» (Sal 139,1), «tu sai di che siamo plasmati, ricordati che noi siamo polvere» (Sal 104,14).

La Parola «opera in voi credenti»; la lettera agli Ebrei lo conferma:


«12  Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (4,12). Attraverso la sua Parola Dio viene a noi e ci parla. Ci parla per istruirci nel senso forte della parola: per formarci, per educarci, darci la sapienza così da essere maturi e preparati ad ogni opera buona (cf. 2Tm 3,16s.).


S.Girolamo scrive: «Poiché la carne di Cristo è vero cibo e il suo sangue è vera bevanda, il nostro unico bene nella vita presente è mangiare questo pane e bere questo sangue non solo nel mistero dell’altare, ma anche nella lettura delle Scritture» (Gorce, p. 341).  La preghiera con la Parola e sulla Parola, lungi dallo sviluppare una pietà individualistica, apre l’anima a una spiritualità di comunione. Sviluppa la solidarietà dei credenti, apre alla storia e, come scrive Malachia profeta «riporta il cuore dei figli verso i padri». (3,24) entrando in fraterna solidarietà con tutti gli uomini di Dio: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Samuele, Davide, ecc. Sono veramente i Padri della fede che si sono nutriti molto prima di noi della Parola. Siamo così avvolti da una grande nube di testimoni (cf . Eb 12,1). La redazione del Deuteronomio rivela uno sforzo di ritorno alle fonti della fede messo in atto dai suoi curatori (v. la riforma di Giosia del 622 a.C.), sforzo che dovrebbe essere anche il nostro. Il Deuteronomio – dicevo –  insiste molto quando invita a rileggere senza sosta la Parola divina (cf. 6,4-9), a meditarla (cf. 34,32-40), a guardarsi dal dimenticarla (cf. 8,11), a trasmetterla ai propri discendenti (cf. 4,9s.). é una Parola che vale per tutte le generazioni (cf. 29,13s.), che sarà scritta per poter essere letta in futuro (cf. 31,9-13); il libro la rende vicina: «è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica» (cf. 30,11-14).
Chiudo con una bella esortazione di Isacco di Antiochia (+ 460/461): «Dal campo viene la gioia del raccolto, dalla vite i frutti che ci nutrono e dalla Scrittura la dottrina che vivifica. Il campo dà il raccolto una volta all’anno; la vite non fornisce che una vendemmia all’anno mentre la dottrina salutare sgorga dalla Scrittura ogni volta che la si legge. Il campo, dopo il raccolto, si ferma e si riposa; così anche la vite, fatta vendemmia, non dà più niente; al contrario, la sacra Scrittura, anche se vi si raccoglie ogni giorno, dà sempre delle spighe a quanti la scrutano. Andiamo dunque a questo campo, rallegriamoci dei suo solchi e cogliamo le sue spighe vivificanti»

(cf. D.Hemmedinger-Iliadou, l’articolo “Efrem” del  Dictionnaire de Spiritualité, t.4.1 Paris 1960, col. 811).