Il Vangelo di Marco, presentazione velocissima

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Rivalutato solo negli ultimi decenni, il vangelo di Marco è stato a lungo considerato uno scritto secondario e poco teologico, forse a causa di alcuni giudizi poco lusinghieri dati nell’antichità da alcuni autori. Basta pensare a Papia di Gerapoli che lo definì lo “scrivano” di Pietro oppure a S. Agostino, per il quale «Marco seguì Matteo e sembra essere stato suo alunno o compendiatore. In effetti egli da solo riferisce pochissime cose» (Il consenso degli Evangelisti 2,4). Sta di fatto che il “vangelo dimenticato”, dagli inizi del secolo scorso, soprattutto con lo studio di Wrede del 1901, è stato notevolmente ripreso in mano dagli studiosi al punto da vedere in lui l’inventore del genere “vangelo”, colui che aprì la strada agli stessi Matteo e Luca. Oggi è uno degli scritti più studiati. Un uomo straor­dinario, quindi, che non cessa di es­sere riscoperto, come dimostra la bi­bliografia sempre crescente.

La parusia si allontana, i testimo­ni oculari stanno scomparendo, la tra­dizione orale rischia di allentarsi e i cristiani conoscono le prime perse­cuzioni, Marco intuisce la necessità di fissare la memoria e lo fa unendo un materiale preesistente e disorga­nizzato, ma ricostruendo il tutto in un progetto coerente che a sua volta ha un’idea dominante: rivolgere lo sguardo verso la persona di Cristo. «Il suo interesse è strettamente cristologico, anzi potremmo dire che è esclusivamente cristologico». È un pa­rere è unanime, R. Fabris lo dice preci­sando il contesto: «Quella che trac­cia il secondo vangelo è una cristo­logia per una comunità posta in cri­si dall’esperienza delle persecuzioni, chiamata a seguire Gesù lungo il cam­mino della croce, per poterlo alla fi­ne riconoscere come il Messia, rive­lato da Dio e accolto nella fede co­me “suo” Figlio» (Gesù il Cristo, Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 607). Il racconto evangelico va dalla pre­dicazione di Giovanni alla risurrezio­ne ed è sulla bocca del Battista che troviamo ulteriormente esplicitato il filo conduttore del vangelo, questa volta in forma più interlocutoria: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chi­narmi per slegare i lacci dei suoi san­dali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito San­to» (1,7-8). Giovanni non dice chi è Gesù, ma ne ricorda i lineamenti messianici, suscitando negli ascoltatori la curiosità di scoprire e conoscere chi è questo «più forte» che non battez­za solo nell’acqua, ma nello Spirito Santo, cioè che non purifica sempli­cemente l’esterno, ma rinnova l’uo­mo dal di dentro (cf. Ez 35,25-29). Ha così inizio un cammino di ri­cerca dell’identità con un procedi­mento in chiaroscuro che differenzia la cristologia marciana da quella de­gli altri evangelisti. Se Giovanni par­te dalla preesistenza e prosegue con un crescendo, se Matteo lo circonda di autorità e Luca lo segue Salvato­re dal momento della nascita, Marco indugia, nasconde, procede per osta­coli, riproducendo riflessi di luci e di ombre. Ciò è evidenziato da tre tec­niche con cui l’autore accompagna la rappresentazione della vita pubblica del maestro: gli interrogativi, i testi di incomprensione, le imposizioni del silenzio.

I primi sono una costante, a parti­re da 1,27 in cui, “tutti”, presi da ti­more, si chiedevano «che è mai que­sto?«; e poi «ma chi è costui?« (4,41). «come può parlare così?» (2,7). «da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata da­ta? E i prodigi come quelli compiu­ti dalle sue mani?» (6,2). La perico­pe centrale del vangelo (8,27-9,13) si introduce con Gesù che fa suo il gio­co delle domande: «La gente, chi di­ce che io sia? … Ma voi chi dite che io sia?» (8,27-28). Numerosi so­no anche i testi dell’incomprensione: non lo capiscono le folle (2,1-3.6), né i discepoli (4,40s; 6,14.52: 8,14-21; 9.10.32), che lo scambiano per un “fantasma” (6,49), né la sua famiglia che addirittura lo ritiene pazzo (3,21), particolare riportato da Giovanni che però lo rende in maniera meno cru­da, dicendo semplicemente che «i suoi fratelli non credevano in lui» (7.5). Con sorpresa ci si imbatte infine nel tema del grande silenzio che circonda la persona di Gesù, che Ge­sù sceglie deliberatamente e che sfo­cia negli ordini tassativi a mantene­re il segreto sulla sua prerogativa

messianica (cf. 1,25.34.44; 3,11s; 5,37.40.43; 7,33.36; 8,26.30: 9,9).

Analizzando questi brani, Wrede elaborò una delle idee più famose e forse più affascinanti del vangelo di Marco, che resiste nonostante alcuni periodici tentativi di confutazione: il cosiddetto “segreto messianico”. Marco tende a nasconderlo, a estraniarlo, non è in fondo proprio questo lo scopo del suo vangelo: far­lo conoscere? Però così non si rende ragione dei molti passi in cui Gesù stesso rivendica la pretesa messianica (cf. 8,13; 11,1-11.27-33; 14,62) e di altri in cui questo segreto non sembra poi essere tale perché qua e là l’evangelista inserisce i suoi titoli cristologici e piccole annotazioni in mostra del fatto che il «nome di Gesù» stava diventando ugualmente famoso (cf. 6,14). Que­sto segreto sta in una certa pedago­gia dal duplice intento: evitare i ma­lintesi allora circolanti sulla conce­zione del Messia e rimandare la pie­na rivelazione al momento della mor­te-risurrezione. Ai giudei che vede­vano il Messia come restauratore del regno davidico e ai pagani che era­no abituati ad immaginare uomini se­mi-divini operatori di prodigi, Marco risponde con un invito a cambiare le proprie prospettive. Se essi vogliono comprendere chi è questo «più for­te» che battezza nello Spirito, devo­no rinunciare alla pretesa di sapere in anticipo come sono le cose di Dio. Collegando il silenzio allo stupore che comunque Gesù suscitava nelle folle (1,22; 5.42; 6,2.51; 7,37; 16,8) si potrebbe anche ritenere che Marco intendesse semplicemente comunica­re il senso di una misteriosa trascen­denza. Più che nella linea dell’occul­tamento, il segreto rivelerebbe quin­di un aspetto della persona di Cristo che è quello di essere troppo grande per venire rinchiuso in una formula o paragonato a qualcun altro. Egli è un mistero che colpisce per troppa grandezza, chi si accosta a lui non può che reagire come Pietro dinanzi alla trasfigurazione: «non sapeva cosa di­re» (9,6). Di fatto la figura di Gesù ha continuato a esercitare un fascino ir­resistibile in ogni orizzonte culturale. La domanda rivolta ai discepoli «e voi chi dite che io sia?» diventa una sorta di provocazione perenne, da una parte invita l’uomo di ogni tem­po a rivedere le proprie domande, a sciogliere la durezza del cuore, altro tema marciano ricorrente (cf. 6,6.51; 8,17.21), per prepararsi a un incon­tro che forse sconvolgerà le attese e che per essere adeguatamente com­preso richiede l’atteggiamento inte­riore della fede. Dall’altra, circonda la persona di Cristo di un profondo e fecondo silenzio. «La dottrina in­torno a Cristo comincia nel silenzio», scriveva D. Bonhoeffer, ogni risposta è incompleta, ognuno è chiamato a interrogarsi, rendendosi disponibile alla conversione e al cambiamento delle proprie categorie. Davanti al mistero di Gesù siamo disarmati e dobbiamo essere disponibili a rive­dere le nostre asserzioni.

Marco ha «uno stile povero, po­polare, il suo scritto è la lingua par­lata» (R.Penna, Letture evangeliche, Saggi esegetici sui quattro vangeli, Roma 1989, 90) ma proprio per questo è un narratore dalla presa immediata, che sa colorire i racconti. riempiendoli di particolari che portano il lettore a ri­vivere le scene così come dovettero svolgersi nella loro concretezza. Sin­golari il racconto della tempesta se­data, dove l’evangelista offre il det­taglio di un Gesù che dorme in fon­do alla barca «con la testa appog­giata su un cuscino» (4,38) o la pit­toresca precisazione, nel racconto della trasfigurazione, sul biancore delle vesti, divenute tali che «nessun lavandaio sulla terra potrebbe ren­derle così bianche» (9,3). La narra­zione di molti miracoli e di diversi episodi è ricca di pathos e di descri­zioni vivaci che servono all’intento biografico e cristologico di porre il lettore in contatto con la personalità del Cristo. Quando Gesù entra nel­la casa di Giairo, Matteo scrive che «la folla era in agitazione» (9,23), Lu­ca dice che «tutti piangevano e fa­cevano il lamento» (8.52). Marco au­menta il movimento dicendo che c’e­ra «trambusto e gente che piangeva e urlava forte» (5,38), facendo emer­gere per contrasto la tranquillità di Gesù.

Una singolare assenza è quella dei grandi discorsi. Pur conoscendo e va­lorizzando il titolo di “maestro” (cf. 4,38; 9,38: 10,35; 14,12). Marco non ripor­ta che pochi detti. Privilegiando il me­todo induttivo, e volendo rispondere al quesito di fondo riguardante l’identità, l’evangelista non si sofferma sul messaggio, ma sul messaggero. In base a un’altra caratteristica marcia­na, che è il parallelismo Cristo-cri­stiani, ne deriva una lezione secondo cui essere chiesa non vuol dire tanto condividere dei principi o una dottri­na, ma piuttosto farsi suoi discepoli e segua­ci. Per farlo occorre però conoscerlo e lo si conosce da ciò che fa, i fatti sono più probanti delle parole. Il Gesù di Marco è un uomo in azione, un rea­lizzatore; è la sua vita più delle sue parole che convince, «quel che Gesù insegna si attua nella sua persona» (R. Schnackenburg, La persona di Gesù Cristo, Brescia 1995, 44).

Un altro aspetto che l’evangelista accentua è l’umanità di Cristo, ciò che appare comprensibile se si tiene pre­sente il contesto pagano di cui sopra si parlava. Lui solo lo definisce «il fa­legname, il figlio di Maria” (cf. 6,3), e ne descrive l’umanità attingendo a tut­ta la gamma delle emozioni: com­passione (cf. 1,41), commozione (cf. 1,43), stupore (cf. 6,6), ira e sdegno (cf. 3,5), sim­patia e amicizie particolari (It),21), paura e angoscia (cf. 14,33),5 il grido del­la morte (cf. 15,34). Se Matteo tratteg­gia un Gesù solenne e ieratico, se Lu­ca lo presenta Salvatore delle mise­rie umane, Marco lo umanizza, lo av­vicina, trascinando il lettore in una partecipazione emotiva. La tenerezza emerge dalla scena ricca di calore dei bambini stretti tra le braccia (cf. 10,16), mentre Matteo ri­ferisce solo il gesto solenne dell’im­posizione delle mani (cf. 19,15), ma è so­prattutto con le persone colpite dal male che si focalizzano i tratti delta premura. Marco presenta una netta contrapposizione tra Gesù e il male, rappresentato dalle diverse afflizioni e malattie, da Satana (cf. 3,22-30) e dai demoni che compaiono in numerosi brani (cf. 1,21-28; 1,32s; 3,11s; 3,22-30; 5,1-20; 6,7; 7,24-30; 8.33; 9,14-29; 9,28s). Il «più forte» è sempre Gesù, con lui è iniziato il tempo della vit­toria, il tempo dell’azione salvifica di Dio che viene in questo mondo. Di­nanzi alla sua azione, il potere del male si restringe ed è destinato alla sconfitta totale. Il sordomuto è portato «in dispar­te, lontano dalla folla», nell’intimità Gesù compie il miracolo, toccandolo e sospirando (cf. 7,31-37); anche quan­do gli presentano il cieco, egli «lo pre­se per mano e lo condusse fuori dal villaggio» (8,23). Sono rappresenta­zioni cariche di simbolismo, che por­tano a immaginare la scena di un Ge­sù che accosta le persone colpite dal male: le prende per mano, le accom­pagna per un lungo tragitto di stra­da, sospira, interroga, operando il prodigio in un rapporto io-tu.

Il servo sofferente

Se la conoscenza di Gesù si rica­va da ciò che fa, è la sua autodedi­zione nella passione a costituire l’a­pice dell’intera narrazione, al punto da far dire a M. Kaehler la nota espressione che il vangelo di Marco non e altro che un racconto della pas­sione con un’ampia introduzione. L’e­vangelista sembra prevenire le obie­zioni alla sua presentazione affasci­nata del Cristo: come può essere tan­to grande, inviato da Dio e Salvato­re uno che è morto in un modo così infamante?

Dalle tentazioni, il cammino del maestro è disseminato di incom­prensioni, inimicizie, difficoltà. La cri­si sì accentua nella seconda parte, quando diminuiscono anche i mira­coli, con due sole eccezioni (cf. 9,14-29; 10,46-52). Carica di umanità dram­matica è la rappresentazione del Get­semani (cf. 14,32-42), l’inizio dello scan­dalo (cf. 14,27). Gli altri evangelisti ten­tano di elevare il livello umano del racconto, Marco inquadra invece una scena ad alta tensione emotiva: Ge­sù sente «paura e angoscia», confida ai discepoli di essere «triste fino alla morte», cerca il loro appoggio, si get­ta a terra e prega il Padre di allon­tanare il calice, riprendendosi con un coraggioso atto di abbandono. Da no­tare in questo contesto l’inserimento della locuzione aramaica Abbà, con cui Gesù si rivolge al Padre, «ed è so­lo Marco 14,36, in tutto il Nuovo Te­stamento a dirci esplicitamente che Gesù pregava così.

Ma è a Gerusalemme, sul Golgo­ta, che l’evangelista dà l’appunta­mento a coloro che con lui hanno se­guito il cammino di progressiva ri­cerca del «più forte» quando, in mez­zo a ehi lo insultava, considerandolo incapace di salvare se stesso, Gesù «gridò a gran voce» e dando «un for­te grido, spirò». In questa descrizione così intensa si eleva la dichiarazione del centurione. paradossalmente un pagano, che può finalmente dire:

«Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). C’è come un cerchio che si chiude: l’atto di fede nel figlio di Dio, con cui si era aperto il van­gelo serve ora da titolo di coda. tn mezzo abbiamo assistito alla rappre­sentazione di un Gesù che si è rive­lato in tutta la sua originale parados­salità, suscitando domande e interro­gativi, circondandosi di silenzio e chie­dendo solo la fede. Ora che il suo de­stino di croce e di umiliazione si com­pie, il velo è definitivamente tolto e, singolarmente, tra i tanti fenomeni straordinari ricordati negli altri van­geli, Marco riporta proprio solo quel­lo del velo del tempio che si squar­cia. Non è solo il velo della rivela­zione, ma quello della redenzione, «poiché ora abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio» (Eb 10,22).

L’attenzione ai dolori del Cristo fa capire la predilezione marciana per il titolo di “figlio dell’uomo”, che ri­corre in numero quasi doppio ri­spetto a Matteo e Luca. L’evangeli­sta conosce e usa il titolo nei suoi di­versi significati, compreso quello escatologico, ma lo adopera soprat­tutto in riferimento alla passione (cf. 8,31; 9,9.12.31; 10,33.45; 14,21.41)

mostrando, al tempo stesso, una cer­ta diffidenza verso il titolo più trion­fante di “figlio di Davide”, che ricorre solo due volte (cf. 10,47; 12,35), mentre Matteo lo usa come incipit e altre cin­que volte. Il motivo è lo stesso: Mar­co contraddice le aspettative e spie­ga la regalità del Cristo nella linea del servizio. Il suo “figlio dell’uomo” non è altri che il servo sofferente di Is 52,13-53,12, interpretazione che, se si studiano i testi dell’ultima cena, va fatta risalire a Gesù stesso. Il “più for­te” è il crocifisso per amore, «l’uomo dei dolori, che ci rivela la sconfinata compassione di Dio e la sua infinita sofferenza come sofferenza del suo amore. Nel suo amore egli soffre con le sue creature e per le sue creature, perché egli vuole la loro redenzione nella libertà» (I. Moltmann, Le radici cristiane dell’ateismo moderno, in AA.VV., L’ateismo, natura e cause, Milano 1981, 161).

Autore, data, destinatari – Come in tutti i vangeli, l’autore non ha messo la propria firma sul proprio scritto; così anche per l’autore “Marco” dobbiamo fidarci delle prime testimonianze manoscritte (datate fine II sec.) che riportano i titoli dei vangeli e la loro attribuzione. Ma un elemento decisivo è dato dal fatto che fin dall’inizio questo vangelo è stato attribuito, come per gli altri vangeli canonici, ad un personaggio di cui si parla nel Nuovo Testamento, in particolare negli Atti degli Apostoli: un tale «Giovanni, detto anche Marco» (cf. At 12,12). Se per i vangeli di Matteo e Giovanni gli autori sono degli apostoli, per Luca e Marco si tratta di discepoli di apostoli.

Marco dunque è un cristiano della seconda generazione, discepolo di Barnaba (forse suo cugino? cf. Col 4,10) e Paolo; li ha accompagnati nei primi loro viaggi missionari (cf. At 12,25; 13,13) fino alla “rottura” tra di loro causata – secondo il racconto lucano – proprio dalla presenza di Marco (cf. At 15,37-39). Anche nel “biglietto” a Filemone (v. 24) e nelle lettere pastorali compare il nome “Marco” tra i collaboratori di Paolo (cf. 2Tm 4,11) come pure nei saluti finali di Pietro, in cui lo chiama «figlio mio» (1Pt 5,13), un termine affettuoso riservato ai suoi collaboratori. Papia di Gerapoli ricorda infatti che «Marco, divenuto interprete di Pietro, mise per iscritto tutto ciò che si ricordava.. ».

   Si può dunque affermare, mettendo insieme tutti questi dati, che Marco è un giudeo-cristiano di origine gerosolimitana (il “Giovanni-Marco” degli Atti) che segue dapprima Barnaba e Paolo, poi va a Roma dove diventa interprete di Pietro e compone il suo scritto intorno al 70 d.C. In ogni caso, che abbia assistito o no agli eventi della distruzione di Gerusalemme (nel 70 d.C.), sicuramente Marco è il primo degli evangelisti, per motivi di ordine filologico e di critica interna che qui non è possibile analizzare.

Circa i destinatari, Marco scrive ad una comunità che è agli inizi della sua esperienza di fede, probabilmente di origine pagana (come testimoniano le frasi in aramaico tradotte in greco per i suoi lettori), per condurla passo passo alla pienezza dell’esperienza di fede. A buon motivo si può ritenere il vangelo di Marco come il vangelo del discepolo, dell’iniziazione alla fede di chi è “lontano”. Non è chiara la zona geografica in cui viveva tale comunità: c’è chi pensa alla Galilea, chi alla Decapoli, chi alla Siria, chi ancora a Roma; certo è che Marco mostra una serie di ammiccamenti nei confronti dei romani, una familiarità alla cultura romana che non può essere ignorata.

Struttura, stile, genere letterario – Il più breve dei vangeli – solo 11.229 parole contro le oltre 19.000 di Luca e le oltre 18.000 di Matteo – è strutturato in 16 capitoli il cui centro è costituito dalla pericope-cerniera che si trova in 8,27-30 (la professione di Pietro a Cesarea di Filippo). Questa fa da spartiacque tra la prima (1,1-8,26) e la seconda parte del vangelo (8,31-16,8). La scelta qui adottata per la suddivisione del testo verte prevalentemente su criteri teologici e letterari.

            1,1-13: tirolo + prologo

            1,14-3,6: la via del Messia e il rifiuto dei nemici (I sez.)

            3,7-6,6a: la via del Messia e il rifiuto dei vicini (II sez.)

            6,6b-8,26: la via del Messia e l’incomprensione dei discepoli  (III sez.)

            8,27-30: la svolta di Cesarea con la confessione di Pietro (cerniera)

            8,31-10,52: sulla via dalla Galilea a Gerusalemme (IV sez.)

            11,1-13,37: Gesù a Gerusalemme (V sez.)

            14,1-15,39: passione, morte e risurrezione rivelano il Figlio di Dio (VI sez.)

            16,1-8: epilogo.

Lo stile di Marco è essenziale, minimo. La semplicità del linguaggio si affianca ad una costruzione elementare della frase, che fa un uso massiccio della paratassi, cioè della congiunzione “e” con cui lega le diverse frasi. Se perde qualcosa in eleganza, guadagna certamente in chiarezza ed essenzialità.

Il “vangelo” per Marco non è la semplice narrazione della vita di un personaggio storico, né una biografia con intenti più o meno apologetici e nemmeno un racconto agiografico; per lui è essenzialmente una “buona notizia” (eu-anghèlion). Il termine era già conosciuto nel mondo profano: sappiamo di un’iscrizione del 9 a.C. scoperta a Priene (Asia Minore) che riporta la “buona notizia” della nascita dell’imperatore Cesare Augusto. Marco ha applicato questo lieto annuncia a Gesù di Nazaret, il Messia atteso da Israele, intendendo con questo narrare le parole e i fatti da lui compiuti nella sua vita terrena. Perché il contenuto di questa “buona notizia” – sembra comunicare già il titolo – è proprio la persona di Gesù.