Elogio del silenzio

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

Oggi si parla tanto di dialogo, della sua necessità e della sua forza qualificante a tutti livelli della vita sociale. Ma, a pensarci bene non ci sarebbe nessun dialogo se questo non fosse intervallato dal silenzio. Il silenzio accompagna l’ascolto, lo scambio dei racconti, delle riflessioni, l’apertura scambievole sebbene il silenzio vada oltre tutto ciò che è religioso perché è costitutivo dell’umano. Esattamente come la parola di cui il silen­zio non costituisce l’antitesi, ma l’imprescindibile radice.

Il legame tra parola e silenzio è ben tratteggiato dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty (+1961). Quando si propone di «prendere in considerazio­ne la parola prima che sia pronunciata, sullo sfondo del silenzio che la precede, che non cessa di accompagnarla e senza il quale essa non direbbe nulla; [si tratta di rendersi] sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto della parola è intramato»  (La prosa del mondo, Roma 1984, 66). Senza silenzio non c’è ascolto, non c’è parola, non c’è dialogo. Il contrario del silenzio non è dunque la parola, ma il rumore, la confusione.

Per Aristotele, l’uomo è l’essere parlante, è «l’animale che ha la parola» (zoon logon echon, Politica 1,2), la parola si svilisce, si svuota, e infine perisce se perde il suo legame con il silenzio: cosa che vediamo nel mondo dominato oggi dalla bulimia comunicativa. Il sociologo e antropologo francese Philippe Breton parla dell’utopia della comu­nicazione che crea il paradigma dell‘homo communicans, il quale in realtà è l’uomo senza spazio interiore (sans ínterieur), ridotto alla sua sola immagine, eterodiretto da informazioni e stimoli a lui esterni (cf. L’utopia della comunicazione. Il mito del “Villaggio planetario” Torino 1993). Il sistema comunicativo oggi pervasivo e imperante trova proprio nel silenzio ciò che è insopportabile, il nemico, la propria rovina. Il silenzio manda in tilt il “troppo pieno” della comu­nicazione, l’ideale saturante di una comunicazione continua, completa, immediata, che non lascia intervalli di tempo per cui si è contemporanei e onnipresenti a ciò che avviene alle più diverse la­titudini e longitudini. Giustamente osserva un altro antropologo francese, David Le Breton: «L’imperativo della comunicazione è una messa sotto accusa del silenzio, così come è uno sradicamento di ogni inte­riorità ma perviene alla fine alla saturazione, all’insignificanza» (Le silence et la parole contre les excès de la communica­tion, Toulouse 2009, p. 24).

Il silenzio cui ci si riferisce non ha a che fare semplicemen­te col non parlare o col tacere: non è una mera passività, ma un’attività, un’azione interiore: si tratta di “fare silenzio”. Il silenzio è dunque qualcosa che va costruito, fatto. E l’esperien­za del dialogo tra uomini di diverse appartenenze, ma anche l’esperienza monastica, mostra come il silenzio possa divenire un’azione comune, in cui si crea una profonda intesa: questo silenzio, infatti, è il faticoso lavoro dell’anima per cui ogni uomo cerca di abitare la propria interiorità.

Il silenzio poi dona interiorità e profondità alla parola fino a rendere possibile la parresía, la franchezza, l’audacia, cioè l’esercizio della libertà di parola, come nell’antica demo­crazia greca. Il silenzio, come interiorità della parola, fa sì che parlare non sia tanto emettere un suono, un flatus vocis: esso agisce come spazio interiore, cassa di risonanza grazie a cui il locutore “sente ciò che dice” e vi aderisce. Così si pongono le basi per un dialogo sincero, autentico, coinvolgente. Il silenzio dà origine alla parola e la nutre di convinzione, di passione, di sofferenza, di coerenza: consente di uscire dal divario tra parola detta ma non creduta, tra parola pronunciata ma non sentita, tra parola proclamata ma non vissuta.

Parlare a partire dal silenzio significa “testimoniare”. Il te­stimone (il martyr), ha il coraggio di spingersi fino alla perdita della vita per la verità che intende onorare con la parola che sa pronunciare. Parola che nel silenzio finale della morte trova la sua massima espressione. Il silenzio della morte del martire dilata a dismisura la potenza della sua parola: l’intera vita del martire, i suoi ideali, diventano parola autorevole che va oltre i limiti individuali e acquisisce portata universale. La morte senza parole del martire diviene una parola che prosegue e rilancia il dialogo con le generazioni a venire.

Il silenzio poi, pone “limiti” alla parola. Il silenzio ricorda che la parola, per essere vera, cioè capace di comunicare, di esprimere il parlante e di raggiungere colui a cui parla, deve avere dei limiti. Il silenzio è origine e fine della parola, è ciò che precede e segue ogni parola ed, essendo limite, dà senso e forma a ciò che limita: innestare la parola sul silenzio significa renderla cosciente dei propri limiti, della propria non onnipotenza, del proprio bisogno della parola di altri per cercare insieme la verità e costruire insieme un senso. Ponendo limiti alla parola, il silenzio la rende mite, ovvero capace di fare spazio e di rispettare l’altro: così il silenzio è alla radice della vera potenza della parola, che non è la forza totalitaria, la potenza mortifera della parola unica, la violenza della parola assordante, la prepotenza della parola che zittisce gli altri, ma la nobiltà della parola che ascolta e dà la parola all’altro. Ricor­da il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas (+1986): «Parlare e ascoltare sono una sola cosa, non si alternano. Così, parlare istituisce il rapporto morale di uguaglianza e, di conseguenza, riconosce la giustizia» (Difficile liberté, Paris 1976, p. 20).

Il silenzio addomestica la forza della parola e le restitui­sce una dimensione etica, liberandola dal rischio dell’as­solutizzazione. L’etica della parola è immediatamente rispetto e riconoscimento della persona umana e rende colui che parla «l’essere che risponde delle sue parole» (L. Manicardi, Verso un’etica della parola, Magnano 2015, p. 20). Essa non demoniz­za l’avversario, non soffoca le sue parole gridando più forte di lui, non nega di aver detto ciò che si è appena detto, né getta sugli altri la colpa del fraintendimento, ma esige che l’interlo­cutore sia considerato con rispetto, che la parola pronunciata non possa essere smentita, negata, ritrattata, banalizzata, e infine che la parola stessa sia custodita nella sua valenza di espressione umana per eccellenza, dunque espressiva di colui che parla. L’etica del dialogo e del confronto dice che l’opi­nione dell’altro, l’opinione diversa dalla mia è per me impor­tante tanto quanto la mia.

Una parola innestata sul silenzio non sarà mai totalitaria. La parola che custodisce il rapporto con il silenzio, e che dunque diventa mite, riconosce di aver bisogno dell’alterità. Il silenzio è spazio per l’altro, è spazio per l’ascolto e l’accoglienza ed è soffio che accompagna la parola. E così esso contribuisce alla riuscita della parola come incontro. Innestare la parola nel silenzio significa poi dare “veridicità” alla parola stessa. Il teologo spagnolo Raimon Panikkar (+2010) afferma che noi possiamo «parlare di silenzio», ovvero «lasciare che il silenzio scoppi in parola, e questo parlando con semplicità e verità». La parola era, dice R. Panikkar, è «silenzio parlato» (Il silenzio della parola: pluralità non dualistiche, Brescia 1989, 18-19).

Infine, il silenzio è tempo, è dare tempo alla parola e, insieme, fuggire il tutto e subito: è fuggire le illusioni per aderire al reale, unico luogo di costruzione dell’umano, dei rapporti sociali, dei dialoghi che durano nel tempo. Il silenzio è pausa, respiro, dunque vita che immette preziosi intervalli nel continuum altrimenti indifferenziato e imprigionante del tempo e del vivere. E allora si comprende che il silenzio, questo atto di creatività interiore, è all’origine del parlare vero, quindi dell’autentica espressione di sé e dell’autentica relazione con l’altro; è indispensabile per essere liberi, per essere cosciente­mente se stessi e per vivere relazioni degne di questo nome, per vivere quella dimensione esistenziale e politica decisiva dell’essere umano che è la libertà.

Elogiando il silenzio vengono in mente le parole: «sussurro di una brezza leggera». È un’espressione originale biblica che proviene dal ciclo del profeta Elia (1Re 17-19). Fuggendo dalla regina fenicia Gezabele che lo vuole morto, Elia si rifugia sul monte Oreb: «Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (1Re 19,9-13).

Ora l’espressione ebraica qól demàmàh daqqàh di 1Re 19,12, spesso tradotta, sulla scorta del­l’antica versione greca deI LXX (III-I sec. a.C.) e della Vulgata (fine IV sec. d.C.), con «sussurro» o «mormorio di brezza leggera», in realtà significa inequivoca­bilmente «voce di silenzio sottile». L’esegeta Jacques Briend (+2017) a proposito del passo di 1Re 19,12 scrive che: «Il testo ebraico non lascia spazio ad alcun equi­voco» e il sostantivo demàmàh deve essere tradotto con “silenzio”, poi­ché la radice verbale ha come senso originario “restare muto, essere quieto”» (Dieu dans 1’Écriture, Paris 1992, p. 26). Yhwh si rende presente nel paradosso della voce del silenzio. Probabilmente la versione tradizionale, ripresa da molti traduttori moderni, si ritrae davanti a quello stesso paradosso della «voce del silenzio» e, parlando di brezza, adotta un’espressione più conforme all’idea che ci si può fare di una teofania. In que­sto modo, ridotto anch’esso a fenomeno atmosferico – per quanto tenue – l’ultimo elemento della serie dei quattro che si presentano a Elia all’Oreb (dopo vento, terremoto e fuoco), viene normalizzato e adeguato al contesto. Ma Dio non si manifesta, in questo testo, negli elementi teofanici tradizionali – sinaitici e mosaici – del fuoco, del vento e del terremoto, ma nella voce del silenzio tenue, sottile. Dio si mostra nel silenzio e nell’interiorità, non solo nella parola e negli elementi teofanici esteriori e clamorosi quali il fuoco, il terremo­to, il vento, il tuono (cf. Es 19,18-19). Le forme del manife­starsi di Dio agli uomini mutano, non possono essere assolutiz­zate e imbrigliate fino a limitare la libertà di Dio. Qui il silenzio di Dio dice dunque non la sua assenza, ma la sua presenza inedita, la sua capacità di incontrare l’uomo in forme sempre rinnovate.

Lo studioso Yair Zakovitch, docente emerito di studi biblici all’Università ebraica di Gerusalemme, ha individuato la presenza, nel nostro testo, dello schema retorico profetico e sapienziale “tre cose, anzi quattro“, che presenta tre realtà più una quarta, omogenea alle altre, dello stesso ordine, ma che è la più im­portante, quella decisiva. Questo schema si trova in Amos 1-2 («Per tre peccati di Giuda, anzi per quattro, non revocherò la condanna») e in Prov 30,15-33. Ad es.: «Tre cose non si saziano mai e quattro non dicono mai “basta!”: lo sheòl, il ventre sterile, la terra che non si sazia mai di acqua e il fuoco che non dice mai: “basta!”» (Prov 30,15-16). Se questa intuizione è vera, in riferimento a 1Re 19,12 si do­vrebbe rovesciare l’interpretazione tradizionale, che ha fatto del­la quarta cosa un fenomeno atmosferico, e rileggere le tre prece­denti alla luce dell’ultima, che è un fenomeno interiore. Vento, terremoto, fuoco e voce sono simboli (che, tra l’altro, si ritrova­no nella pagina di Atti degli Apostoli 2 per indicare lo Spirito Santo: 2,1-6) che rinviano a dimensioni interiori dell’uomo le quali, a loro volta, trovano la loro sintesi nel silenzio interiore di colui che sta davanti a Dio interamente, total­mente, unificato in tutte le sue dimensioni profonde. Allora le prime tre cose (vento, terremoto, fuoco) vanno interpretate alla luce dell’ultima, che è chiaramente un fenomeno interiore, non atmosferico. Si tratta pertanto di cogliere la dimensione simbolica di vento, terremoto, fuoco. Alla luce di questo sche­ma anche l’espressione «il Signore non era nel vento, (…) nel fuoco, (…) nel terremoto», non significa un’assoluta assenza, ma che il Signore non è in quelle cose come è nell’ultima.

Nelle scritture ebraiche ruah è termine che significa “vento”, “alito”, ma anche “spirito”. Può essere una realtà atmosferica, ma anche antropologica o teologica (lo “spirito di Dio”). Cer­to, un vento che sgretoli le rocce e frantumi le montagne non esiste in natura: probabilmente l’autore intende orientare verso un’interpretazione simbolica di ruah. Ruah è “forza”, “poten­za”, ma una potenza che può schiacciare e travolgere chi la detiene. Maimonide (+1204 – filosofo, rabbino, medico, talmudista, giurista spagnolo, una delle personalità di spicco dell’Andalusia) interpreta volentieri ruah come forza di volontà. La forza di volontà appare come un elemento del­la personalità del profeta Elia (cf. «profeta come fuoco», in Sir 48,1-11), però una forza che può rivelarsi eccessiva, troppo impetuosa e aggressiva. È vero che lo Spirito investe anche la dimensione volitiva della persona, ma l’esperienza spirituale non è riducibile alla forza della volontà. Una religione che si affidi alla sola istanza della forza di volontà rischia di divenire intollerante, fanatica, violenta.

Il terremoto: l’ebraico parla di rahàs, “tremore”, “tremito”, che può designare il tremare della terra, ma anche un feno­meno psicologico ed emotivo. In Ez 12,18 questo ter­mine significa “trepidazione”, “tremore”, e indica una reazione emotiva dell’uomo. Del resto, l’immagine del terremoto è usata molto spesso nella Bibbia con valenza simbolica, in particolare in riferimento all’intervento di Dio. Se si vuole tradurre con “terremoto” si tratta di un terremoto interiore, di uno sconvol­gimento intimo che rinvia alla sfera emotiva, che certamente accompagna l’esperienza spirituale, ma non la può esaurire. Una religione che arrivi a delegare all’emotività la propria di­mensione spirituale rischia di sbiadire in un’esperienza intima, psicologica e autoreferenziale. Il fuoco: spesso simbolo del farsi presente di Dio (ad es. nel roveto ardente, Es 3,2-4), rinvia anche alla dimensione passionale, affettiva, erotica. L’eros è «fiamma di Yah», (Cant 8,6). E l’esperienza spirituale attraversa l’af­fettività e la sfera erotica dell’uomo, le concerne, ma l’affettività e l’eros non esauriscono l’esperienza dello Spirito. Una religione in cui la dimensione affettiva o erotica prenda il sopravvento nell’esperienza spirituale rinchiude la religione stessa nello spazio del gruppo chiuso, caldo, settario, autosufficiente.

Con la voce, qol e la voce del silenzio, siamo di fronte al simbo­lo di una presenza ineffabile e interiore. L’esperienza spirituale di­viene apofatica, cioè assente di parole. La voce è silenziosa: non eccesso di zelo, non sus­sulto emotivo, non passione incontrollata. Non fondamentalismo violento e intollerante, non zelo aggressivo e assassino, non integri­smo settario, ma l’ascolto e il dialogo che sprigionano dall’esperien­za del Dio rivelato nella voce del silenzio fine, che chiede finezza di ascolto spirituale per essere ascoltata. L’ascolto di sé, delle proprie profondità, conduce alla conoscenza di sé, ma anche e soprattutto all’incontro con il Dio che si manifesta anche nel silenzio.

Il silenzio come “kenosi” – Se vogliamo guardare al dialogo interreligioso, il silenzio deve cono­scere una valenza particolare e declinarsi come kenosi, come, svuotamento, ab­bassamento. I processi di inculturazione necessitano sempre, e in concomitanza, di processi di deculturazione. Per l’incontro occorre uno spogliamento. Come l’incontro con l’avversario per fare la pace esige il deporre le armi e lo svestire le armature, come l’incontro intimo implica lo spogliarsi, come l’incontro ultimo con Dio, attraverso la morte, richiede lo spogliamento radicale, il lasciare la vita stessa, così l’incontro con uomini e donne di altre tradizioni e religioni richiede lo spogliarsi della pretesa di detenere la verità, il mettere a tacere le parole troppo forti e troppo a lungo gridate, il togliere le corazze difensive che impediscono il ritrovarsi e lo stabilirsi della fiducia reciproca.

Così, il silenzio che fa spazio all’altro diviene anche una messa a tacere delle parti di sé che costituiscono un ostaco­lo all’incontro. L’incontro e il dialogo immettono coloro che accettano di entrarvi sulla strada del cambiamento e della tra­sformazione. Nella pratica del dialogo ciò significa che si è chiamati ad accettare che l’altro sia altro, non solo alius, “un al­tro”, ma alter, “diverso e irriducibile”. Lì, si tratta di cancellare le convinzioni di superiorità della propria cultura e religione e i giudizi di inferiorità su culture, e tradizioni religiose altre. E si tratta di accedere a una nozione di verità dialogica e relazionale non sposata indissolubilmente con “1’uno” – come avvenuto nel cristianesimo occidentale, influenzato dalla filosofia greca – ma accogliente dell’alterità.

Il cristiano non può non ricordare che la sua fede si fonda su un’assenza e su un silenzio, ben simboleggiati dalla tomba vuota (cf. Mc 16,1-18 e parall.). È questa assenza che consente l’avvento del corpo della chiesa e del corpo delle Scritture. Giorno dopo giorno l’uomo inventa nuove macchine e marchingegni che accrescono il rumore e distraggono l’umanità dall’essenza della Vita, dalla contemplazione e dalla meditazione. Musica ad alto volume, urlare, strillare, rimbombare, parlare ad alta voce, girare con le cuffie audio, rafforzano il nostro ego. La Chiesa e le Scritture incorporano il silenzio di Gesù che dovrebbe agire costantemente come pungolo che impedisce alla parola della Chiesa di prevaricare sulla Parola di Dio, e si oppone a un uso fondamentalista, autoreferenziale e violento delle parole scritturistiche. Il cristianesimo è fondato su un’assenza origi­naria e la coscienza di una mancanza è sempre la condizione del rapporto con l’altro, con il diverso. Il cristianesimo, così inteso, non è una totalità inglobante, ma una fede dialogante che manifesta l’universale bisogno dell’altro. L’azione del silenzio nel dialogo tra appartenenti a tradi­zioni religiose diverse consiste infine nel purificare le parole sull’altro, nell’ascoltare in modo limpido e aperto le sue parole; comporta l’entrare in relazioni interpersonali di amicizia, di co­noscenza e il dare spazio all’esperienza umana e spirituale vis­suta. Questa kenosi, questo silenzio, non è di morte, ma di vita (di M. de Certeau antropologo, linguista e storico francese, vedi Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, Magna­no 1993. Abbiamo bisogno comunque di trovare Dio, ed Egli non può essere trovato nel rumore e nella irrequietezza. Dio è amico del silenzio. Guarda come la natura – gli alberi, i fiori, l’erba – crescono in silenzio; guarda le stelle, la luna e il sole, come si muovono in silenzio …. Abbiamo bisogno di silenzio per essere in grado di toccare le anime (Madre Teresa di Calcutta).

 

Libera rielaborazione di un articolo di L. Manicardi apparso nel libro curato da B. Salvarani, Il folle sogno di Neve shalòm – Wahat al salàm, ediz.ETS 2013