Sul Purgatorio

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

 

  1. Il Purgatorio rientra nel quadro della nostra fede e fa parte dei cosiddetti “novissimi” insieme alla morte, al giudizio, all’infermo e al paradiso distinguendosi però da questi per il fatto di essere uno stato temporaneo e non definitivo. La Congregazione per la Dottrina della Fede ha affermato che «La Chiesa crede, per gli eletti, nella possibilità di una purificazione preliminare alla visione di Dio, cosa del tutto estranea alla pena dei dannati» (Doc. Cat. 76, [1979] 708-711 – DZ 4657). Il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa in questo modo: «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gloria del cielo» (1030). Così il Purgatorio, come lo intende la Chiesa, ci mette di fronte alla possibilità di una purificazione dopo la morte, purificazione legata a una sofferenza del tutto diversa da quella dell’inferno.
  2. A rigor di termini questi enunciati del Magistero hanno il loro fondamento nella lex orandi, cioè nella tradizione liturgica della Chiesa, piuttosto che nelle Sacre Scritture. La Chiesa infatti prega per i fratelli defunti e se lo fa è perché quelli sono in una condizione che motiva questa preghiera come del resto avviene per i riti funebri e la commemorazione dei defunti. È a partire da questo, più che da considerazioni di tipo teologico, che la Chiesa parla di Purgatorio. Le grandi preghiere eucaristiche di Oriente e di Occidente hanno tutte una preghiera per i fedeli defunti, es.: «Ricordati dei tuoi servi … che ci hanno preceduti nel segno della fede e dormono il sonno della pace. Per essi e per tutti coloro che riposano in Cristo, imploriamo la tua bontà: che entrino nella gioia, nella luce e nella pace» (Canone Romano). Una preghiera come questa non si trova nel Nuovo Testamento. Ai Tessalonicesi che si preoccupano per la sorte dei loro cari che sono morti prima della parusia di Gesù, l’Apostolo risponde che non devono essere angustiati come quelli che non hanno speranza. Quelli che si sono addormentati nell’attesa della sua venuta risorgeranno insieme agli altri per andare incontro al Signore nella gloria (cf. 1Tess 4,13-18). Comunque nell’insieme delle lettere paoline non si trova mai una raccomandazione a pregare per i defunti.
  3. In seguito la tradizione per dare fondamento alla dottrina sul Purgatorio si rifarà a due testi della Scrittura. Il primo è tratto dal secondo libro dei Maccabei. Vi si ricorda l’intercessione per dei soldati morti sui quali erano stati trovati degli amuleti: «Ma trovarono sotto la tunica di ciascun soldato oggetti sacri agli idoli di Iàmnia, che la legge proibisce ai giudei. Così fu a tutti chiaro il motivo per cui costoro erano morti. Perciò tutti, benedicendo Dio, giusto giudice che rende palesi le cose occulte, si misero a pregare, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato. Il nobile Giuda esortò tutti a conservarsi senza peccati, avendo visto con i propri occhi quanto era accaduto a causa del peccato di quelli che erano caduti. Poi fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dracme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio per il peccato, compiendo così un’azione molto buona e nobile, suggerita dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli pensava alla magnifica ricompensa a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato» (12,40-46).

Un secondo testo è preso dalla prima lettera ai Corinti. In un passaggio in cui parla dell’annuncio del vangelo, Paolo ammonisce i predicatori a proposito della qualità dei materiali con cui edificano “la casa” della famiglia di Dio e che non deve avere alcun altro fondamento che il Cristo dicendo: «Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà la ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco» (3,14-15). Il fuoco rimanda al Dio santo: immagine piuttosto nota nelle scritture del Primo Testamento. Nel pensiero di Paolo si tratta di un atto sovrano del Cristo alla fine dei tempi e non di un evento che accadrà alla morte di ciascuno. Così anche nella celebrazione del sacramento della Penitenza, e non nelle Scritture, che la preghiera per i defunti trova un punto d’appoggio più solido. In effetti, alla fine del secondo secolo, questa celebrazione prende la forma precisa della penitenza pubblica.

  1. La Chiesa del primo millennio – La Chiesa del primo millennio si pone ancora nella prospettiva del secondo ritorno del Signore alla fine dei tempi. L’aldilà appare come una sorta di sala d’aspetto, un po’ come lo Sheòl nelle scritture ebraiche. S. Ambrogio, ispirandosi al IV libro di Esdra, afferma che le anime riceveranno la giusta ricompensa solo alla fine dei tempi. Separate dai loro corpi, soggiorneranno in seguito nelle dimore celesti di cui Gesù ha parlato (Gv 14,2). In questo modo pregustano la loro sorte futura: le une saranno nell’amarezza, le altre nella fierezza e nella gioia. Il procedere per gradi degli eletti li innalza e come i giorni della settimana vanno verso l’ottavo giorno, l’eterno (cf. De Bono mortis 10-11). La dimensione sociale nella percezione dell’aldilà è molto presente. I giusti sono nell’afflizione perché sebbene si sentano sicuri di poter contare sui propri meriti la redenzione dell’intero corpo della Chiesa non c’è ancora stata e sono per questo in una sorta di disagio. S. Agostino parla dell’aldilà in termini di rifugio nascosto e misterioso (occulta sedes secreta et abdita receptacula). Egli adotta una suddivisione quadripartita dell’aldilà che diverrà patrimonio comune in Occidente fino all’inizio del secondo millennio: accanto ai “giusti” e agli “empi” vi sono dei “più buoni” e dei “meno cattivi”. La Chiesa intercede per i “meno buoni”. Quanto ai “meno cattivi” potranno beneficiare di un alleggerimento della loro pena nell’ultimo giudizio perché la pena non è eterna. Agostino è il primo che fa riferimento al “fuoco purificatore” (ignis purgatorius) nell’aldilà riferendosi a 1Cor 3,11-15; a proposito della situazione dei “meno buoni”, parla di un fuoco temporaneo presente peraltro nelle tribolazioni di questa vita (cf. De Civitate Dei 21,26,4).
  2. La teologia medioevale – Entrando nel secondo millennio viene in primo piano la domanda sul destino dell’anima immediatamente dopo la morte. L’attesa della parusia cede il passo al desiderio di vedere Dio. Al modo simbolico del pensare dei Padri succede un modo di pensare più analitico, preoccupato di distinguere le cose le une dalle altre e di rappresentarle. In questo contesto appare per la prima volta (1196), grazie alla penna di Pierre le Mangeur il sostantivo “Purgatorio”. La sua apparizione non è insignificante e segna il passaggio dall’aggettivo che qualificava uno stato a un sostantivo che designa un luogo. Jacques Le Goff vi vede una conquista del XII sec. avvenuta su un terreno ben preparato dal secolo precedente: «La credenza che si è via via rafforzata fra il IV e l’XI sec. ha creato un terreno molto favorevole alla nascita del Purgatorio; è legata alla pratica delle preghiere e in particolare quelle di suffragio per i defunti. Nel loro insieme i fedeli vi trovano il modo di soddisfare sia la solidarietà al di là della morte coi propri parenti e vicini, sia la speranza di esserne a propria volta beneficiari allo stesso modo» (La naissance du purgatoire, Paris 1981, 179).

È allora che si profila nell’immaginario cristiano una topografia dell’aldilà strutturata in tre luoghi distinti: paradiso, purgatorio, inferno. Il paradiso si trova negli spazi celesti, l’inferno al centro della terra e il purgatorio nelle vicinanze dell’inferno. Il popolo cristiano accolse senza difficoltà queste localizzazioni immaginando il Purgatorio in Irlanda, nota per il “Purgatorio di S. Patrizio”, mentre in Italia lo si immaginava nel cratere dell’Etna. Se era difficile dar corpo alla visione beatifica, la fantasia prendeva il volo pensando alle pene e alle torture delle anime del purgatorio. Del resto certe rappresentazioni erano confortate dal racconto di quelle anime che venivano a visitare i viventi, parlando delle loro tribolazioni e chiedendo preghiere. Così si è creata quella diffusa familiarità con le anime del purgatorio così radicata ancor oggi.
In ogni caso si è precisata la differenza fra la pena temporale che conduceva al purgatorio e quella eterna che portava all’inferno. Chi moriva in stato di peccato mortale era passibile di dannazione eterna mentre colui che moriva in peccato veniale poteva esserne liberato nel purgatorio. La purificazione che avveniva nel purgatorio era intesa come espiazione e come soddisfazione; il purgatorio era considerato come un luogo di sofferenza dovuta ai peccati commessi. Fra il fuoco inteso come metafora e il fuoco reale, la teologia medioevale optava senza incertezze per il fuoco reale in purgatorio. Tommaso D’Aquino localizzava il purgatorio al di sopra dell’inferno «in modo tale che lo stesso fuoco che tortura i dannati purifica i giusti nel purgatorio» (IV Sent. d. 21, q.l.a.t.ad). Annota inoltre che la sofferenza che causa questo fuoco supera ogni sofferenza umana sulla terra. Concependo così il purgatorio, come un terzo luogo posto fra il cielo e la terra, S. Tommaso, come i suoi contemporanei, tendeva a “infernalizzarlo” e la sola differenza stava nel fatto che il purgatorio era uno stato provvisorio mentre l’inferno era definitivo ed eterno. S. Tommaso pensa che una quarantina d’anni costituisca una buona misura di purificazione; sottolinea comunque che le anime non meritano di rimanere in purgatorio perché la loro volontà è ormai fissa in Dio, plasmata da lui come quella dei beati. Insomma la loro sofferenza in purgatorio ha una sola specificità: purificare dalle conseguenze del peccato.

  1. Il Magistero – I tentativi di unione con le Chiese d’Oriente hanno spinto il Magistero a precisare la sua posizione sul Purgatorio prendendo le distanze dalla teologia dell’epoca. Si potrebbe dire che le chiese orientali, nelle loro affermazioni sull’aldilà, erano rimaste a uno stadio ancora arcaico, più povere nella messa a fuoco, ma più ricche nella percezione globale del mistero. L’aldilà era paragonato a un luogo di attesa nel quale continuava, misteriosamente, proprio come sulla terra, l’opera della salvezza. La Chiesa deve continuare la sua opera fino alla piena manifestazione del giorno del Signore, giorno della separazione definitiva fra giusti ed empi.

Constatando che a proposito dei suffragi per i fedeli defunti la Chiesa greca aveva la stessa dottrina della Chiesa Romana e, a proposito di un’eventuale purificazione dopo la morte, non avendo un termine per designare il luogo per questa purificazione, papa Innocenzo domandò ai greci, attraverso una lettera indirizzata al legato della Santa Sede presso di loro (1254), di chiamare quel luogo “purgatorio” facendo menzione del fuoco, cosa che non corrispondeva affatto al modo con cui essi concepivano la purificazione dato che per loro non c’era altro fuoco nell’aldilà se non nell’inferno. La professione di fede imposta all’imperatore Michele Paleologo, vent’anni dopo in occasione del concilio di Lione II (1274), eviterà di parlare di parlare del Purgatorio in termini di luogo e di fuoco: «Coloro che sono morti nella carità, prima di aver soddisfatto con degni frutti di penitenza i peccati che hanno commesso, sono purificati dopo la morte con pene purgative e purificanti, pene che possono essere addolcite dalle intercessioni dei fedeli viventi» (DZ 838). Il tema del Purgatorio verrà affrontato di nuovo al Concilio di Firenze (1445). Sembra infatti che ci siano stati dei malintesi da parte dei greci. Questi erano inclini a credere che i latini (=i cattolici) considerassero il purgatorio come un inferno temporale. Da qui il bisogno di insistere sul fatto che coloro che sono in purgatorio «muoiono nell’amore di Dio» (DZ 856). In questo modo il magistero si smarcava dalla teologia del suo tempo. Le nozioni di luogo e di fuoco materiale non fanno più parte delle asserzioni della Chiesa sul purgatorio. Resta comunque una differenza di fondo: i greci continuavano a pensare alla purificazione nell’aldilà in termini di illuminazione progressiva, mentre la Chiesa pensava in termini di pene purificanti.

  1. Caterina da Genova e Maria dell’Incarnazione – Alla fine del XV sec., il contributo di Caterina da Genova alla dottrina del purgatorio è stato quello di liberarla dalla veste giuridica nella quale l’aveva stretta la teologia medioevale. Lo fece assimilando le sofferenze proprie del purgatorio alla sua propria esperienza spirituale della sofferenza mettendola così sotto il segno dell’amore e non del giudizio. Dio l’aveva fatta passare attraverso delle purificazioni passive. Caterina scopre allora che in esse c’era una forza che l’attirava interamente a Dio, oggetto della sua beatitudine, mentre c’era in lei un’altra forza che gli si opponeva. In questo avvertiva in se stessa un’opposizione tra la purezza di Dio e le proprie imperfezioni. Scrive che in purgatorio l’anima ama Dio intensamente e il Dio amante l’attira con dolce violenza interamente a sè per condurla al suo stato originario di creatura. In questo modo egli l’addolora a causa di un desiderio di essere trasformata, un desiderio che la consuma come un fuoco. Dio le comunica gioia senza per questo toglierle il dolore che le procura la forza con cui gli resiste. Per quanto possa essere penoso, questo dolore ha la sua sorgente nell’amore, amore ricevuto ed amore restituito. Così è l’amore la prima realtà del purgatorio e l’anima vi trova la propria gioia e il proprio appagamento.

Scrive Caterina: «Io credo che esista un appagamento da paragonare a quello di un’anima del purgatorio: è quello dei santi del paradiso. E questo  appagamento cresce ogni giorno per la corrispondente azione di Dio in quell’anima in cui consuma ogni giorno ciò che lo ostacola … Le anime del purgatorio hanno conformato totalmente la loro volontà alla volontà di Dio;  di conseguenza Dio corrisponde a quella volontà con la sua bontà; essa rimane contenta perché questa viene purificata dal peccato originale e da quello attuale» (Trattato sul purgatorio, cap. 11).
La relazione di Maria dell’Incarnazione (sec. XVII) di quello che chiama il colpo di grazia della sua conversione, è particolarmente esemplare nel modo in cui il dolore avvertito per i propri peccati trovi la sua sorgente in quell’amore in cui essa stessa è amata anche se inizialmente la grazia da cui è toccata l’attira più alla conversione cristiana che orientarla al purgatorio. Scrive: «Tutto ad un tratto gli occhi del mio spirito furono aperti e tutte le mancanze, i peccarti e le imperfezioni che avevo commesso da quando ero venuta al mondo mi furono ripresentate a larghe linee e nel dettaglio, con una chiarezza e una limpidezza più sicure di ogni indagine umana. Allo stesso momento io mi vidi interamente tuffata nel sangue e il mio spirito era convinto che quel sangue era il sangue del Figlio di Dio della cui effusione io ero colpevole per tutti i peccati che mi erano stati ripresentati (…) In quel momento il mio cuore si senti rapito da se stesso e cambiato in amore verso colui che gli aveva fatto una cosi nobile misericordia, che gli diede nell’esperienza di questo stesso amore, un dispiacere e un dolore per averlo offeso nel modo più estremo che uno possa immaginare. No! Non è possibile! Questo aspetto dell’amore è così penetrante e inesorabile al punto da non attenuare il dolore e gettarmi nelle fiamme per soddisfarlo. Ma la cosa più incomprensibile è che il suo rigore sembra dolce» (Scritti spirituali, Parigi 1929, 183).
Come in Caterina da Genova, l’approccio giuridico alla sofferenza del purgatorio, con quegli aspetti esteriori che comportava la teologia medioevale, si trova superato dall’amore con cui l’anima si sente amata, amore che diventa motivo di sofferenza in ragione della coscienza del proprio peccato.

  1. Teresa di Lisieux – Teresa fa un passo ulteriore nell’interiorizzazione della nozione di purgatorio mettendo sotto il segno della misericordia la sofferenza che esso comporta. Se c’è giustizia questa è al servizio di un giudizio di misericordia: «è questa giustizia, che spaventa tante anime, che diventa il soggetto della mia gioia e della mia fiducia» scrive al padre Roullands, perché essere giusti «non è soltanto esercitare la severità per punire i colpevoli, me è anche riconoscere le giuste intenzioni» (lettera 226); «Sorella mia – disse un giorno a una delle sue consorelle – voi volete la giustizia di Dio e avrete la giustizia di Dio. L’anima riceve esattamente ciò che si aspetta da Dio». Ora è proprio il cielo e non il purgatorio che Dio desidera, lui che è l’oggetto della nostra speranza. Teresa spera di andare direttamente in cielo. Difatti Dio non vuole per nessuno la purificazione del purgatorio; non l’impone che a malincuore. Bisogna allora desiderare di evitare il purgatorio non per il timore delle sofferenze che si devono sopportare, ma per far piacere a Dio. A suor Maria Filomena che le confidava di temere il purgatorio, lei risponde: «Non temete il purgatorio, ma desiderate di non andarci per far piacere al buon Dio che impone con molto disappunto questa espiazione».

In questo modo Teresa, come Caterina da Genova, arriva a dissociare la sofferenza del purgatorio della sua veste giuridica liberandola inoltre dal rapporto di proporzionalità fra la mancanza e la sanzione che pesava su di essa. Senza perdere mai di vista il legame fra giustizia e misericordia in Dio, arriva persino a giudicare “inutili” le sofferenze del purgatorio. In un solo istante Dio può agire e fare la grazia con un atto di puro amore. «Questo non perché io sia pronta; io sento che non lo sarò mai se non fosse il Signore stesso a trasformarmi. Può farlo in un istante; dopo tutte le grazie di cui mi ha colmato attendo ancora quella della sua infinita misericordia» (lettera a un’anima A 84 verso). Per Teresa le anime che vanno in purgatorio sono già nell’intimità di Dio: «So che se fosse per me stessa non meriterei mai di entrare in questo luogo di espiazione perché solo le anime sante possono entrarvi, ma so anche che il fuoco d’Amore è più santificante di quello del purgatorio; so che Dio non può desiderare per noi sofferenze inutili e che non mi ispirerebbe il desiderio se non lo volesse colmare» (Storia di un’anima A 84 verso). Teresa sa in realtà due cose: innanzitutto che è già una grazia andare in purgatorio e in secondo luogo che il fuoco d’Amore prevale su quello del purgatorio. Mettendosi dal punto di vista di Dio e del suo desiderio, lei sceglie l’amore che rende inutile le sofferenze che Dio impone a malincuore. Teresa non rinnega ciò che la teologia ha potuto dire del purgatorio in passato. Lei prende posizione verso un approccio penale e giuridico della pena del purgatorio che non si integrerebbe nel suo primo movimento con il gesto di Dio che è un gesto di misericordia. Il suo apporto decisivo sarebbe stato quello di risituare tutta la dottrina della Chiesa sul purgatorio all’interno di quel primo movimento che ne relativizza la pena e pone la sofferenza al suo giusto posto dando così libero corso alla speranza cristiana. Ora la speranza, che si consegna senza misura alla misericordia divina, non sbaglia. «Se andassi in purgatorio – scrive – sarei contentissima; farei come i tre ebrei nella fornace; camminerei tra le fiamme cantando il cantico dell’amore. Come sarei felice così: se andando in purgatorio potessi liberare altre anime, soffrire al posto loro perché allora farei del bene: liberare dei prigionieri» (Ultime conversazioni, quaderno giallo, 8.7.1897).
Le sofferenze del purgatorio differiscono allora da quelle dell’inferno. Esse hanno la loro sorgente in quell’amore che è più forte della morte. Questo è compatibile con la lode e con il movimento di una volontà totalmente orientata verso Dio. Il purgatorio è un effetto dell’Amore di Dio che purifica e dell’amore dell’uomo che, liberato dal suo accecamento, vede e si lascia purificare. Teresa stessa, che parla così del purgatorio, è colei che nella sua ultima malattia recitava ogni sera sei Padre Nostro e sei Ave Maria a favore delle anime del purgatorio secondo una devozione che veniva chiamata l’“Atto eroico”, atto che consisteva nell’offrire a Dio, in favore delle anime del purgatorio, tutti i meriti della propria vita insieme alle sofferenze che avrebbe patito dopo la morte,

  1. I vivi e i morti – Questa è la percezione del purgatorio che si è progressivamente imposta alle coscienze nella Chiesa nel corso dei secoli e legata alla sua preghiera per i defunti. Se questa preghiera ha aperto la Chiesa alla realtà del purgatorio è proprio a partire dal purgatorio che è rinviata lei stessa alla dimensione essenziale della sua missione sulla terra, quella missione che stabilisce un legame fra il mondo di quaggiù e quello di lassù. In effetti il purgatorio apre all’ordine delle realtà ultime: la morte, il giudizio, il paradiso e l’inferno.

Ciò che avviene nella morte ci è del tutto invisibile e sfugge all’osservazione. È in questo senso che la morte costituisce in se stessa la fine definitiva. In realtà essa è per ogni uomo il momento dell’incontro finale con Dio. L’anima si trova allora, come dice S. Paolo, di fronte al tribunale di Dio a render conto della propria vita e delle opere compiute nel bene o nel male. Attraverso il giudizio, che è condotta a fare su se stessa, l’anima è chiamata ad affidarsi con un ultimo atto di libertà al giudizio di Dio su di lei. Un giudizio indubbiamente lucido che rimane giudizio di salvezza in virtù del Cristo morto per la salvezza del mondo. Il defunto, nella misura in cui si unisce nella propria morte alla morte di Cristo che è morto per lui, si rimette a questo giudizio di Dio su di lui col pentimento che Egli suscita da parte sua, lui riceve qualsiasi sia la natura dei suoi peccati, l’assoluzione del suo debito e il perdono. Così si aprono a lui le porte della vita eterna, cioè le porte del paradiso. Chi invece si rifiuta in quel momento di ricevere il giudizio di Dio su di lui si condanna alla dannazione eterna. Questo stesso giudizio di salvezza da parte di Dio, che in Gesù Cristo è passaggio dalla morte alla vita diventa, a causa della libertà di ciascuno, giudizio che fa compiere una scelta fra inferno e paradiso. In quel momento, morte e giudizio corrispondono l’una all’altro, diventano una sola cosa nell’incontro che sigillano tra Dio e l’anima e che apre a quelle due realtà ultime che sono l’inferno e il paradiso.
A rigor di termini non ci sono che due stati definitivi nell’aldilà: l’inferno e il paradiso. Come abbiamo potuto constatare la fede cristiana, soffermandoci sugli enunciati del Magistero, non obbliga in nessun modo  a considerare il purgatorio un terzo luogo posto tra l’inferno e il paradiso. Colui che immediatamente dopo la morte di trova eventualmente in purgatorio è per sempre in intimità con Dio (Cat. Chiesa Catt.) e nel suo amore (Conc. di Firenze). Vede già Dio faccia a faccia, lo vede precisamente così come egli è, nella misura in cui lo consentono i peccati che ha commesso, lasciti che lo fanno soffrire per ciò che interferisce tra lui e la visione di Dio e che la Chiesa chiama “la pena temporale” dovuta al peccato.

  1. L’aldilà non è il semplice prolungamento con altre modalità della vita di quaggiù. La morte fa entrare in un ordine nuovo difficilmente e rischiosamente rappresentabile. Questo vale soprattutto per le realtà ultime, compreso il purgatorio. Ora chi è in purgatorio vive ormai del perdono di Dio; non ha più nulla da meritare. Tutto gli è donato. L’anima non deve più acquistare dei meriti attraverso atti di pentimento e di espiazione in vista di un perdono da conquistare. Se c’è sofferenza nel purgatorio non è dovuta a un atto meritorio. Essa invece è dovuta a un movimento che volge l’anima interamente verso Dio, sofferenza dovuta alle tracce di peccato o alle omissioni della vita passata, sofferenze che l’anima accetta in virtù del proprio agire purificatore, sofferenza del tutto diversa da quella che le causava sulla terra il rifiuto dei suoi peccati. L’anima non ha il timone di questa sofferenza e non può che accettare la sua forza purificatrice. Accettandola da lode a Dio come i tre ragazzi nella fornace che ricordava Teresa di Lisieux: pur in mezzo al fuoco, nella loro prima reazione di rivolgersi a Dio, non venivano toccati dalle fiamme.

Il dogma del purgatorio fissa un rapporto di prossimità, di scambio, di aiuto vicendevole se non di convivenza fra la terra e l’aldilà. Mette in contatto i viventi coi defunti dando a questi ultimi un aspetto di dimensione umana oltre il velo della morte, riconoscendosi gli uni gli altri e compatendo una sofferenza condivisa nonostante la natura differente degli uni e degli altri. Il farsene carico reciprocamente, pone i vivi e i morti in una relazione del tutto diversa da quella che fonda il culto dei santi. I viventi si sentono utili a quelli che li hanno lasciati, sforzandosi di alleggerire le loro sofferenze con la preghiere, con le Messe di suffragio oppure come Teresa di Lisieux, offrendo a loro favore i meriti delle loro buone opere. Sentendosi debitori di questo aiuto che giunge a loro da parte dei vivi, le anime del purgatorio intercedono venendo in loro aiuto nelle tribolazioni che incontrano qui nella vita sulla terra.
Le seguenti confidenze di Jean-Marie Vianney a un confratello qualche settimana prima della sua morte (1859), in rapporto alla devozione per le anime del purgatorio della sua epoca, conservano tutta la loro pertinenza: «Possiamo ottenere molte grazie per mezzo delle anime del purgatorio. Queste anime sante sono le spose di Gesù Cristo, sono gradite più di noi ai suoi occhi, le loro preghiere sono più potenti delle nostre presso Dio, essendo più sante di noi e confermate nella grazia. Ancora. Non potendo attraverso di esse né liberarsi, né provare sollievo nelle terribili sofferenze che patiscono, né potendo ancora, secondo l’ordine fissato dalla Provvidenza, ricevere direttamente da Dio stesso un qualche sollievo, sono obbligate a ricorrere a noi (…) per ottenere dalla nostra carità, per mezzo dei nostri suffragi, il sollievo o la liberazione dai loro tormenti. Sono dunque interessate a pregare il buon Dio per tutte le persone che pensano a loro e le sollevano dai loro mali e a far sentire loro l’effetto positivo delle loro preghiere e delle loro intercessioni al fine di impegnarle sempre più a pregare per loro e non essere dimenticate» (citato in G. Gauchet, Il crepuscolo del purgatorio, Parigi 2005, 139).

Il dogma del purgatorio è praticamene scomparso dal paesaggio interiore della maggior parte dei cristiani di oggi. Le cause di tutto questo sono molteplici. Sono in parte dello stesso ordine di quelle che abitano la coscienza cristiana riguardo l’insegnamento della Chiesa sui misteri dell’aldilà. Poi, senz’altro, ci sta la confusione che molti fanno fra purgatorio e inferno, confusione che porta a vedere il purgatorio unicamente dal punto di vista della giustizia quando, in realtà, esso è la manifestazione tangibile della misericordia di Dio che accoglie i peccatori. C’è ancora un vuoto lasciato da questa disaffezione che si intravede forse maggiormente se si pensa all’immaginario cristiano formato attraverso i secoli riguardo alla prossimità, al di là della morte, fra quaggiù e l’aldilà. Ogni domanda vuota è stata sempre colmata, in un modo o nell’altro. La seduzione che esercita ai nostri giorni la dottrina della reincarnazione sull’immaginario di un buon numero di cristiani è dovuta forse in buona parte a questo richiamo del vuoto, non riempito adeguatamente da una fede consapevole.