La felicità non è in vendita

Germogli

germogli” è una collanina, nata quasi per caso, dopo una riunione nella quale mi era stato chiesto di proporre una breve meditazione;

germogli” è una cosa piccolissima, debole, un timido inizio, niente di ambizioso;

germogli” ha la pretesa di mettere in comune qualche passo nel cammino di fede guardando alla Scrittura e sapendo che «né chi pianta è qualcosa, né lo è chi irriga, ma è Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).

Alberto Bigarelli

di Alberto bigarelli

 

  1. Uno dei simboli più radicati nell’immaginario dell’uomo moderno è l’associazione tra felicità e ricchezza, con i suoi molteplici derivati come il consumismo, il potere, l’accumulo. Anche quando il sogno non si realizza, rimane la convinzione che si tratti comunque del male minore come diceva spiritosamente Woody Allen, «il denaro non dà la felicità, figuriamoci la miseria».

Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2001, dopo aver mostrato come gran parte della ricchezza negli Usa sia concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, commenta: «Gli appartenenti al primo 1 per cento hanno le case più belle, l’istruzione migliore, i dottori più bravi e lo stile di vita più piacevole, ma c’è una cosa che i soldi non sembrano aver comprato: la comprensione che il loro destino è legato a quello dell’altro 99 per cento di esistenze. Come mostra la storia, questo è qualcosa che il primo 1 per cento alla fine capisce. Spesso, tuttavia, lo impara troppo tardi» (Il prezzo della disuguaglianza, Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Torino, Einaudi, 2014, 453).

Come mai l’associazione tra ricchezza e felicità è così resistente a ogni possibile smentita, nonostante tutti i dati contrari. Parafrasando Cartesio, si potrebbe affermare che, se l’uomo moderno ha imparato a dubitare di tutto, sul denaro non ha mai dubitato: questa è la prima verità, un’idea chiara e distinta, posta a fondamento dell’edificio delle società occidentali.

  1. Tra le varie ipotesi possibili, particolarmente interessante al riguardo è l’analisi di René Girard. Riprendendo contributi di autori precedenti (Alexis de Tocqueville e Adam Smith), egli ha individuato nel meccanismo di imitazione e nel valore simbolico del denaro, sinonimo di sicurezza e riconoscimento sociale, la tendenza a identificare le persone felici con le persone ricche.

Basta pensare al fenomeno della moda e della pubblicità: ciò su cui si fa leva è, più che la necessità di sopravvivere, l’essere apprezzati e riconosciuti. Gli addetti a questi settori sono maestri nel suscitare desideri indotti, non a caso oggetto di studi e investimenti econo­mici rilevanti: presentando figure di persone realizzate, attraenti e ammirate, la pubblicità collega tali caratteristiche a un prodotto, trasmettendo il messaggio che il consumatore può diventare come loro. Si tratta di un messaggio subliminale, non logico, ma che di fatto spinge ad acquistare cose di cui non si ha bisogno – e che neppure si vorrebbero – solo perché si vede altri che lo fanno.

I genitori conoscono bene questo meccanismo: si pensi alle insistenti richieste dei figli, che vogliono qualcosa solo perché posseduta dagli amici o da un personaggio televisivo, salvo ben presto abbandonarla per desiderare altro o un modello più aggiornato. A partire dalla rivoluzione industriale, queste dinamiche sono divenute sempre più potenti e invasive.

Adam Smith, economista e filosofo, notava già nel XVIII sec. che la tendenza all’accaparramento dei beni è dovuta, più che al desiderio di vivere meglio, puntualmente disatteso, alla preoccupazione della considerazione altrui: «A che scopo è diretta tutta la fatica e l’affanno di questo mondo? Qual è il fine dell’avarizia e dell’ambizione, della ricerca del benessere, del potere, del predominio? Forse soddisfare i bisogni naturali? […] Credono che il loro stomaco stia meglio, o il loro sonno sia più profondo in un palazzo piuttosto che in una capanna? È stato così spesso osservato il contrario, che non c’è nessuno che lo ignori. Ma allora, da dove deriva quell’emulazione che attraversa tutti i diversi ranghi umani, e quali sono i vantaggi che ci proponiamo con il grande fine della vita umana che chiamiamo miglioramento della nostra condizione? Essere osservato, ricevere attenzioni, essere considerato con simpatia, compiacimento e approvazione sono tutti i vantaggi che ce ne derivano. É la vanità che ci interessa, non il benessere o il piacere» (Teoria dei sentimenti morali, Milano, Rizzoli, 2016, 150).

  1. L’idea che la felicità sia associata a guadagnare e ad avere sempre di più porta a un aumento di stress e infelicità, a una disumanizzazione e perdita della propria dignità, perché genera quella che è stata chiamata «la corsa dei topi». Robert Kiyosaki, è nippo-americano di quarta generazione che di operazioni finanziarie se ne intende, per descrivere questo meccanismo riprende appunto l’immagine del topo che corre sulla ruota di una gabbia non arrivando mai da nessuna parte: allo stesso punto di arrivo conduce lo sforzo di chi mira a uno status di benessere posto sempre un passo più avanti di quanto realizzato. Più si guadagna e più ci si sente indigenti. L’immagine suggerisce anche il degrado inquietante a cui l’essere umano finisce per prestarsi, fino a diventare una cavia ammaestrata.

Ma la cosa più grave è che la ruota continua a girare, e l’illusione viene trasmessa alla generazione seguente senza interrogarsi sulla bontà delle promesse e sui costi effettivi di una tale corsa: «Lavorano per i proprietari dell’azienda in cui sono impiegati, per le tasse che mantengono lo Stato, per pagare le carte di credito ed estinguere il mutuo immobiliare contratto con la banca. Intanto ammoniscono i figli a “studiare sodo, prendere ottimi voti e trovare un posto fisso”. Non imparano niente sul denaro, ma molto su chi si approfitta della loro ingenuità, finendo col faticare come degli schiavi per tutta l’esistenza. Il processo si tramanda alla generazione seguente di “grandi lavoratori”. Questa è la Corsa del topo» (R. T. Kiyosaki, Padre ricco padre povero. Quello che i ricchi insegnano ai figli sul denaro, Torino, 2004,9 s.).

Il mimetismo è un potente meccanismo di persuasione e di comportamento. Esso rivela però anche un vuoto interiore, per lo più inconscio, che si cerca di colmare con qualcosa che in fondo non si vuole veramente. Quando la persona tende a concentrarsi sui beni materiali, lo fa a scapito di altri beni che vengono in tal modo disattesi, lasciando una frustrazione interiore, che si cerca a sua volta di compensare con altri beni proposti dal mercato: l’insoddisfazione è una cospicua fonte di lucro. Ma il risultato finale è che ci si trova ben lontani dall’aver raggiunto ciò che quei beni sembravano promettere. L’accumulo di beni materiali – di fatto un tentativo di affrontare l’insicurezza psicologica – tende così a esacerbare quegli stessi sentimenti di insicurezza che si volevano eliminare. In tal modo, l’aumento della tendenza all’accumulo è inversamente proporzionale alla qualità della vita e alla soddisfazione percepita. E così si incrementa l’infelicità.

  1. Nessuno nega l’importanza dei beni materiali. Ma la sobrietà è indispensabile per godere di essi – esattamente come del cibo – con libertà. Nella Bibbia, il re Salomone chiede al Signore la grazia di avere il necessario, non di meno ma neppure di più, perché in entrambi gli estremi è racchiuso un pericolo per la qualità della sua vita: «Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia: tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il mio pezzo di pane, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e abusi del nome del mio Dio» (Pr 30,7-9).

Come si è visto a proposito della «corsa dei topi», è impressionante constatare quanto stress comportino la ricerca del guadagno e le sue ricadute sulla qualità della vita, ma anche sulla sua durata. Sembra strano, ma i paesi più ricchi non hanno un’aspettativa di vita superiore a quella dei paesi poveri: negli Usa la media è più bassa rispetto a nazioni europee con reddito scarso, come la Grecia, e gli afroamericani di Harlem arrivano più raramente ai 65 anni di vita rispetto agli abitanti del Bangladesh (Cf. C. McCoRD – H. P. FREEMAN, «Excess mortality in Harlem», in The New England Journal of Medicine, n. 322, 1990, 173-177; P. WICKRAMARATNE ET AL., «Age, period and cohort effects on the risk of major depression: results from Pive United States communities», in Journal of Clinical Epidemiology, n. 42, 1989, 333-343; P. M. LEWINSOHN, «Age-cohort changes in the lifetime occurrence of depression and other mental disorders», in Journal of Abnormal Psychology, n. 102, 1993, 110-120.

Una delle ricerche più recenti, a cura della Purdue University (Usa), lo quantifica tra i 45.000 e i 77.000 euro all’anno. Gli autori hanno compiuto un’indagine su 1,7 milioni di persone in 164 Paesi del mondo. Al di sopra di quella soglia il livello di soddisfazione non aumenta, anzi tende a peggiorare Cf. A. T. JEBB – L. TAY – E. DIENER – S. OISHI, «Happiness, incorre satiation and turning points around the world», in Nature Human Behavior, n. 2, gennaio 2018, 33-38).

Ciò non riguarda solo il denaro. Anche chi è oggetto di un improvviso colpo di fortuna, o di un tracollo altrettanto repentino, manifesta tendenza ad affrontare la vita in un modo pressoché uniforme, presente nella fascia alta come in quella bassa della popolazione, nella buona come nella cattiva sorte. «Gli studi sulle persone che hanno vinto alla lotteria, o che hanno una giornata particolarmente buona alle corse, rispecchiano quanto scoperto sulle vittime di incidenti: dopo un breve periodo di euforia esse invariabilmente ritornano, come un’onda, al punto di partenza, oscillando intorno a quello che gli psicologi chiamano il “punto di equilibrio” sul “termostato” dell’umore» (D. McMahon, Storia della felicità. Dall’antichità a oggi, Milano, 2007, 513). Einstein osservava che è più facile dividere l’atomo che vincere un pregiudizio. L’identificazione tra denaro e felicità è in effetti un preconcetto molto difficile da confutare: la fiducia indiscussa nel denaro, come rilevava Kiyosaki, si trasmette pressoché intatta di padre in figlio, alimentando quella che de Tocqueville chiamava «la disuguaglianza immaginaria». Ed è proprio questo senso di disparità a influire sulla salute in modo più rilevante del reddito, perché plasma la percezione di sé.

La rivista British Medical Journal ha condotto negli anni Novanta un’approfondita ricerca sui fattori che influenzano il rapporto tra beni e qualità della vita, anche in termini di mortalità. La conclusione delle ricerche venne riportata in un editoriale del 1996, dal titolo significativo «La grande idea»: «La grande idea è che i livelli di mortalità e di salute in una società sono influenzati non tanto dalla sua ricchezza complessiva, quanto dalla maniera in cui tale ricchezza è distribuita. Quanto più uniforme è la distribuzione della ricchezza, tanto migliori sono le condizioni di salute della popolazione» (Editor’s Choice, «The Big Idea», in British Medical Journal, n. 312, 20 aprile 1996).

L’aspetto più interessante della «grande idea» è che a guadagnarci è l’intera società e non soltanto i poveri, così come la disuguaglianza va a danno della salute e della qualità della vita anche della fascia più ricca della popolazione, se non altro perché, aumentando la disparità, aumentano anche criminalità e violenza; da qui il crescere di insicurezza e stress, con il timore di trovarsi in una situazione di costante pericolo.

  1. Uno degli effetti più deleteri di questa mentalità è ritenere che tutto possa essere convertito in denaro, che tutto abbia un prezzo, dagli ovuli ai reni, alle persone, allo svago. Ma quando ciò avviene, la qualità della vita tende a svanire, perché irriducibile alla «dittatura del Pil». L’aspetto iniquo della commercializzazione del bene non è solo l’aumento delle disuguaglianze, configurando una società in cui i più ricchi si possono permettere tutto e i poveri nulla, limitandosi a sognare quello che i ricchi possiedono. Il problema è che in entrambe le situazioni il bene viene a corrompersi, in modo irreversibile. Il bene ha un carattere essenzialmente gratuito: nel momento in cui lo si monetizza, deperisce. Le cose più belle non hanno prezzo, anche se sono in commercio. La Divina Commedia o l’Amleto hanno un prezzo di copertina, ma il loro valore – la creatività e genialità espresse in quelle pagine – non potrà mai essere quantificato. Esse non sono riproducibili, perché la bellezza non è riducibile a una tecnica, nel senso industriale. Michael J. Sandel, filosofo politico americano, nota in un libro dal titolo significativo Quello che i soldi non possono comprare: «Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Questo perché i mercati non solo distribuiscono beni: essi esprimono e promuovono anche determinati atteggiamenti nei confronti dei beni oggetto di scambio» (Milano, 2015, 16).

Cinquant’anni fa il sogno di un uomo abbiente era di poter acquistare una bella casa, un’automobile di lusso, o di permettersi una vacanza in località esotiche con la famiglia. L’immaginario odierno consente invece di comprarti l’intera famiglia (in tempi e luoghi da stabilirsi), di prendere in affitto persone per accudire i parenti per ogni evenienza (malattia, feste di compleanno, visite a domicilio). Qualunque spazio della vita ordinaria può essere occupato da personale a pagamento, capace di svolgere le mansioni in maniera più efficiente e qualificata. Ma in tal modo anche gli aspetti più intimi della vita vengono dati in gestione ad altri: non solo la pulizia della casa, ma le foto di famiglia, l’organizzazione di una festa, la visita ai parenti. Basterà pagare qualcuno che lo faccia al posto nostro.

Così non esistono più persone, ma servizi. E in tal modo, il denaro finisce per restringere la gamma di relazioni possibili: separa tra loro le prestazioni sessuali e il sentimento, elimina le regole affettive e la condivisione dell’intimità, portando a quello che qualcuno ha chiamato «la cultura della freddezza». Quando si cerca di monetizzare un bene, lo si smarrisce. La polarità guadagno/perdita finisce per estendersi a tutti gli ambiti della vita: pagare qualcuno perché faccia la fila al nostro posto, farsi tatuare il corpo di pubblicità dei prodotti più vari, vendere il sangue, affittare l’utero, offrire prestazioni sessuali. Quando l’essere umano tende a diventare un prodotto in vendita, perde le sue caratteristiche peculiari, alle quali può accedere solo nella gratuità: creatività, affetti, generosità, dedizione, passione, altruismo, intimità, tenerezza, condivisione, tutto ciò, insomma, che rende umana e bella la vita. Lo stesso vale per le attività di volontariato o per le professioni di aiuto: nel momento in cui vengono stipendiate, registrano immancabilmente uno scadimento nella qualità della relazione.

La commercializzazione dei beni ha un’altra grave conseguenza: rende le persone grette e meno disposte a donare, con il risultato che i beni, invece di essere più disponibili, alla fine risultano più scarsi. Il mondo della gratuità viene ucciso da questa mentalità, e a farne le spese è l’intera società, che si trova privata di servizi essenziali. Vengono così a scomparire le virtù civili che cementano il senso di appartenenza a una nazione: tutto semplicemente è affidato alla logica del mercato, che annulla la dignità del donatore, penalizza il senso del dono, fino a ucciderlo[1].

I primi ad accorgersi di questo sono i più piccoli. La Hochschild, professoressa emerita di sociologia all’Università di California, Berkeley, comprese la gravità di questo modo di pensare quando la figlia scoprì che la sua festa di compleanno in realtà era stata allestita da una persona pagata dalla madre. La delusione sul suo volto era più eloquente di ogni discorso. Per quanto l’organizzazione fosse impeccabile, era artificiale, senza cuore; in essa si erano smarriti, insieme ai sentimenti, anche le persone: «“Capii in quel momento di aver oltrepassato il limite”, il limite di aver varcato il confine del commerciabile tracciato dalla figlia […]: mogli che non sono madri, madri che non sono mogli, seconde mogli e matrigne» (Per amore o per denaro, La commercializzazione della vita intima, Bologna, 2006, 55-58). E il limite è la disponibilità a perdere tempo, a fondo perduto, con le persone che amiamo.

 

  1.  «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Riflettere su cosa renda effettivamente felici, porta a contestare alcuni assiomi basilari delle odierne società: la ricchezza, l’individualismo, la corsa al successo, l’accumulo. La dimensione comunitaria della felicità smentisce la sua valutazione in termini di proprietà personale o di bene di consumo. Paul Ricoeur, grande maestro dell’ermeneutica fìlosofica novecentesca, ha ampiamente riflettuto su questa dimensione, giocando sul duplice significato della parola «riconoscenza/riconoscimento». Il livello più alto della relazione è strettamente legato alla polarità gratuità/gratitudine. Si può conoscere l’altro quando, semplicemente, lo si riconosce gratuitamente nel suo essere altro da me. Ciò è fondamentale per costruire la relazione. La categoria del dono, non a caso, nasce in questo contesto; non può mai ridursi a contratto commerciale, a un do ut des per ottenere alleanze o contraccambiare favori ricevuti. Chi ha riflettuto sulla gratuità, ha anche notato che il dono non è sinonimo di assenza di motivazioni: esso è intimamente connesso all’interesse per l’altro. La dimensione relazionale e affettiva è indispensabile per la felicità, proprio perché appartiene alla categoria del gratuito, del «senza prezzo» (Percorsi del riconoscimento, Milano, 2005, 272) quando tende a commercializzarsi, si perverte, generando malessere.

Ricerche condotte dall’équipe della British University of Columbia (Usa) hanno mostrato che non esiste alcuna relazione tra i soldi spesi per se stessi e la gioia di vivere. Al contrario, alla fine si avverte tristezza. Quando invece si compra qualcosa per altri, ci si sente più felici di prima. E, questo, indipendentemente dal reddito percepito. Donare rende felici. Questo è un dato rilevato in tutte le culture e società. Eppure, quando si chiede a cosa sia associata la felicità, la maggior parte delle persone risponde: quando si ricevono soldi e li si spende per sé. Questi sono due presupposti entrambi errati, eppure presenti in ciascuno di noi. Ciò che si pensa a tavolino sulla felicità è l’opposto di quello che accade nella realtà. In realtà, si è felici solo quando ci si propone di fare felici altri. Per raggiungere la felicità si richiede anzitutto una «conversione intellettuale» circa i criteri con i quali leggere la vita. Donare ad altri rende contenti, sempre: poveri o ricchi, non fa differenza.

Capita, anzi, che i poveri siano più generosi dei ricchi. Strano, ma vero: nel Vangelo i gesti generosi vengono da chi sembra non contare nulla, come nel brano della peccatrice perdonata (cf. Lc 7,36-50); chi è ricco è più riluttante a donare, spesso dà il superfluo, di malavoglia, e facendolo pesare. Gesù, guardando le offerte gettate nel tesoro del tempio, fa notare che l’unica persona capace di fare un dono gratuito è stata una vedova povera che ha dato tutto ciò che aveva per vivere, letteralmente «ha dato tutta la sua vita» (Mc 12,44), a differenza di coloro che la circondano. «Sembra strano che la donna faccia dono di tutto proprio a partire dalla sua miseria, da quel limite che potrebbe invece essere invocato come scusa, come debito ingiusto, proprio per risparmiarsi dal donare. L’insegnamento evangelico si muove in direzione contraria: solo chi non possiede, chi è povero può veramente donare. «Forse è questo il senso della beatitudine evangelica dei poveri in spirito Solo chi è povero, chi non pretende di possedere e riconosce con gratitudine ciò che riceve, può veramente donare, anzi diventa dono» (E. Parolari, Debito buono e debito cattivo. La psicologia del dono, in Tredimensioni 3 (2006) 42-44.

 

  1. Gucci S.J., Soldi e felicità, La Civiltà Cattolica 2019, 4045, 19-31