Letture festive – 53. Giudizio – 30a domenica del Tempo Ordinario Anno C

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

30a domenica del Tempo Ordinario Anno C – 23 ottobre 2022
Dal libro del Siràcide – Sir 35,15b-17.20-22a
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo – 2 Tm 4,6-8.16-18
Dal Vangelo secondo Luca – Lc 18,9-14


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letture festive 53

Il libro del Siracide parla del giudizio riferendolo a un giudice – lo stesso Signore Dio – che si caratterizza per l’assenza di parzialità che siano sfavorevoli al povero. Quest’ultima specificazione – che il giudizio non debba essere parziale o dannoso per il povero – introduce un elemento rilevante, che modifica quanto noi solitamente pensiamo riguardo a un giudizio formulato da un giudice equanime e riguardo a una giustizia giusta e imparziale nei confronti di tutti. Si tratta, tuttavia, dal punto di vista dell’autore biblico, non dell’invito al giudice perché nel suo giudizio chiuda un occhio e sia clemente verso i poveri e gli oppressi, gli orfani e le vedove, né di un giudizio che debba essere addomesticato a favore di interessi di parte, seppure della parte più debole e neppure di una giustizia indulgente con i più bisognosi. Si tratta, piuttosto, di una delle caratteristiche fondamentali per arrivare a un giusto giudizio e a una giusta giustizia che – precisamente per essere sé stessa, per essere davvero giusta ed equa – deve tenere conto delle condizioni di pesante disuguaglianza che caratterizzano la società. Sono, infatti, queste perduranti e a volte crescenti disuguaglianze che determinano per molte persone condizioni di povertà e di oppressione, come avviene anche oggi se si considera, in gran parte del mondo, lo squilibrio nella distribuzione delle ricchezze e dei redditi tra i pochi ricchi e i molti poveri. Per questo l’autore biblico sembra concepire il giudizio come giusto solo se è in grado di tener conto e compensare almeno in parte le disuguaglianze della società, arrivando così a ricreare una sorta di equità. Solo in questo modo, infatti la giustizia, alla quale si deve tendere emettendo un giudizio potrà essere riconosciuta come davvero giusta.

La seconda lettera a Timoteo contiene una sorta di giudizio autobiografico da parte del mittente, il quale fa una sorta di bilancio della propria vita, nel momento in cui si prepara a prenderne congedo. Vengono evidenziati gli aspetti giudicati rilevanti: aver affrontato i conflitti in nome di una buona causa, aver portato a compimento fino in fondo la propria missione, aver mantenuto vive fede e fiducia, difendendole rispetto a ciò che le poteva minacciare e distruggere. Il riferimento a un eventuale giudizio da parte del Signore Dio, definito qui come giudice giusto, dà per scontata la conferma del giudizio positivo che l’autore biblico formula su di sé. Si tratta di una conferma che sarà sancita dalla consegna della corona di giustizia destinata al vincitore, vincitore nel quale l’autore della lettera si immedesima, pur trovandosi in una condizione paradossalmente opposta. Accenna, infatti a una difesa in tribunale in cui nessuno l’ha assistito e tutti invece l’hanno abbandonato, tranne la forza interiore e divina che gli ha consentito, nonostante le difficoltà, di essere liberato e di portare a compimento la missione di annunciare il vangelo. È precisamente questo intreccio spesso paradossale di riuscite e fallimenti, che si alternano nel corso di ogni esistenza umana, ciò per cui è in realtà difficile esprimere un giudizio ultimo sulla propria stessa vita. Quando si prova a farlo si cerca anche sempre di avere conferma della sua validità e affidabilità da qualcun altro, che sia il Signore Dio giudice giusto, come avviene per i con Dio, o che siano le persone autorevoli alla cui valutazione accettiamo di sottoporci, come avviene anche per i senza Dio. In ogni caso si tratta di un giudizio provvisorio e parziale, che rimane sospeso e incompiuto perché – prima della morte – di nessuno si può dare un giudizio completo e definitivo. Persino dopo la morte, peraltro, il giudizio può variare in base ai punti di vista, al tempo trascorso, all’emergere di informazioni inedite e di eventi inattesi. Ciò non deve necessariamente impedire un giudizio meditato e motivato sulla propria vita, ma dovrebbe comunque dissuadere dall’attribuire carattere infallibile e definitivo al nostro giudizio sulla nostra propria vita, fosse anche il giudizio più saggio e ponderato che possiamo esprimere.

La parabola evangelica del fariseo e del pubblicano che vanno al tempio a pregare, mostra, invece e precisamente, il caso di un giudizio sulla propria e sull’altrui vita che non viene sfiorato dal dubbio della propria fallibilità e provvisorietà. Il fariseo, prototipo della persona religiosamente impegnata e fedele, prega nella forma del ringraziamento esprimendo un chiaro giudizio sulla propria vita, descrivendo dati di fatto che, per quanto possiamo intuire dal testo, sono difficilmente contestabili: non è come gli altri uomini ladri, ingiusti e adulteri e neppure come il peccatore lì presente. Osserva, inoltre, i dettami della legge in materia di digiuno e di pagamento di quanto dovuto in base alle leggi religiose. Anche il peccatore, un pubblicano – cioè un collaborazionista con l’invasore romano in materia di raccolta dei tributi – che è lì presente al tempio pur mantenendosi a distanza, formula la sua preghiera nella forma della richiesta di pietà esprimendo un giudizio altrettanto chiaro, anche se di segno opposto, sulla propria vita: è semplicemente un peccatore. Questa apparentemente chiara rappresentazione dei due personaggi e dei rispettivi atteggiamenti viene però, come di consueto, smentita dalla conclusione della parabola, che fa capire come il giudizio auto-assolutorio della persona religiosa sia in realtà involontariamente e tragicamente un giudizio insieme vero ed errato, per ragioni opposte a quelle che ci potremmo aspettare e immaginare. È vero, infatti, che la persona religiosa che dà di sé un giudizio positivo e assolutorio non è come il collaborazionista peccatore, ma non è come lui perché quest’ultimo tornerà a casa giustificato mentre il primo tornerà a casa senza essere stato giustificato, per cui il suo giudizio auto-assolutorio si rivelerà in realtà errato e illusorio. La domanda implicita che alla fine viene rivolta a ciascuno di noi, in quanto ascoltatori e lettori, interpellati e provocati dalla parabola è la seguente: “Quale giudizio ritieni di poter esprimere riguardo a te stesso e – se ritieni di volerlo fare – anche riguardo agli altri? Il giudizio della persona religiosa fedele e giusta o quello del collaborazionista peccatore?”