Riflessioni teologiche – 11. La poesia di Caproni come caccia e preghiera al Dio mancante

Briciole dalla tavola. Vangelo per senza Dio

di Alberto Ganzerli

Nell’opera poetica di Giorgio Caproni il tema della ricerca di Dio prende la forma di una caccia alla preda che sempre sfugge, perché in realtà non esiste. Questa consapevolezza, tuttavia, non determina la fine della caccia, ma attraverso una sorta di preghiera teo-poietica suggella la paradossale relazione di dipendenza reciproca tra l’essere umano e il Dio che gli manca.


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Nell’opera di Giorgio Caproni, uno dei grandi poeti del Novecento italiano, il tema della mancanza di Dio assume un’importanza crescente a partire dalle raccolte degli anni ’60, con il poeta allora cinquantenne, fino alle poesie pubblicate dopo la sua morte a 78 anni nel 1990. Si tratta di una tema affrontato da diversi punti di vista, che tuttavia rimangono all’interno della tensione generata da un singolare paradosso: la costante negazione dell’esistenza di Dio e l’impossibilità di lasciarselo alle spalle per andare oltre. quasi si trattasse di una malattia che si può provare a curare ma da cui non si può guarire: «La mia patoteologia: Dio è una malattia?». L’espressione forse più precisa di questo paradosso si può trovare in un inserto in prosa che vale la pena citare per intero: «Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio. Ma vi è una stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio. Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera e trasparente (e tagliente) come l’ossidiana. L’allegria che essa può dare è indicibile. È l’adito – troncata netta ogni speranza – a tutte le libertà possibili. Compresa quella (la serpe che si morde la coda) di credere in Dio, pur sapendo – definitivamente – che Dio non c’è e non esiste».

Quella che Caproni chiama la sua «ateologia» – interpretabile nel duplice senso di mancanza di teologia o di discorso ateo e che gli consente di non definirsi né ateo né credente – si esprime in una varietà di registri, tonalità e atteggiamenti spesso interrogativi: il rammarico: «Ah, mio Dio, Mio Dio. Perché non esisti?», la sarcastica esortazione: «Dio di volontà, Dio onnipotente, cerca (sforzati!) a furia d’insistere – almeno – d’esistere.», la minaccia: «Ma se Dio fa tanto, disse, di non esistere, io quant’è vero Iddio, a Dio io Gli spacco la Faccia»; il rifiuto di certa inadeguata predicazione: «Gridava come un ossesso: “Cristo è qui! E qui! LUI! Qui fra noi! Adesso! Anche se non si vede! Anche se non si sente! La voce era repellente. Spensi. Feci per andare al cesso. Ci s’era rinchiuso LUI, a piangere. Una statua di gesso», la considerazione filosofica: «E allora sai che ti dico io? Che proprio dove non c’è nulla – nemmeno il dove – c’è Dio», l’ipotesi teologica: «Sta forse nel suo non essere l’immensità di Dio?», l’interpretazione cristologica: «Pensiero fisso: il vero debellatore di Dio, è lui, il Crocifisso?», la congettura: «Non mi ha risposto. Gli ho scritto tante volte. Non mi ha mai risposto. Io credo che sia morto. Non penso che si tenga nascosto», la constatazione: «Un semplice dato: Dio non si è nascosto. Dio s’è suicidato», e la relativa postilla esplicativa: «(Non ha saputo resistere al suo non esistere)?»

La pars destruens, tuttavia, si intreccia in Caproni a una pars construens, che assume i tratti paradossali di quella che potremmo definire una poesia teo-poietica, cioè di una poesia in grado – mentre con decisione nega la sua esistenza – di “produrre” e far esistere Dio. Gli indizi di questa sorprendente possibilità si possono trovare nelle parole di un misterioso pastore d’anime: «“Proteggete il nostro Protettore. Salvate il Salvatore morente”. Così predicava il Pastore nel gelo della chiesa vuota, al lucore dell’ultima bugia rimasta accesa sull’Altar Maggiore».
L’intuizione – presente anche nel Diario di Etty Hillesum, vittima nel campo di stermino nazista – che Dio abbia bisogno del nostro aiuto, in Caproni si muove in due direzioni: la prima sembra condurre all’idea che l’esigenza di amore vicendevole sia accresciuta precisamente dall’inesistenza di Dio: «Cosa può mai insegnarci: “Dio che non c’è,” va clamando. “Per questo,” dice sospirando, “dobbiamo più che mai, amarci”»; la seconda direzione conduce all’idea che la preghiera, intesa come una sorta di caccia a Dio, sia la sola in grado di far esistere Dio nel momento stesso in cui lo nega o lo uccide: «Appunto perché lo preghi, fratello, Dio lo neghi». Come nota Marcello Neri «la preghiera nega un Dio esistente, perché è il sentore del suo non essere presente in una data situazione della vita», per cui Caproni può scrivere: «Io che non ho abitazione (che, qui fra voi, vedete, e per voi, son Dio che esiste, si dice, soltanto nell’atto di chi lo prega: un atto, in fondo, di disperazione e negazione)», e ancora: «Queste sono vie torte. Tra preghiera e deicidio? Come sono vicine (vicine!) alla morte!».

Caproni ribadisce la paradossale necessità, anche “Deo amisso” (cioè anche nel caso Dio sia ormai perduto), che proprio questo Dio – perduto e tuttavia avvertito come mancante – continui a svolgere, grazie alla pratica di questa paradossale preghiera teo-poietica, la propria funzione protettiva, capace d’impedire che tutto venga risucchiato in un abisso: «Enfasi a parte, lasci che dica anch’io: Deo amisso, che altro può restare in terra a far da coperchio all’abisso?». Diventano allora legittime invocazioni paradossali come queste: «Mio Dio, anche se non esisti, perché non ci assisti?», e «Signore, anche se non ci sei, egualmente proteggi e assisti me e i miei». Questo travagliato rapporto con un Dio da negare e da uccidere alterna la pratica teo-poietica della preghiera e la metafora della caccia: «Il guardiacaccia, con un sorriso ironico: – Cacciatore, la preda che cerchi, io mai la vidi. Il cacciatore, imbracciando il fucile: – Zitto. Dio esiste soltanto nell’attimo in cui lo uccidi», e ancora: «Andavo a caccia. Il bosco grondava ancora di pioggia. M’accecò un lampo. Sparai. (A Dio, che non conosco?)».

In questa lotta con un Dio mancante, che Caproni ingaggia sulle orme del biblico Giacobbe, il corpo a corpo diventa così violento da rendere difficile non solo separare ma persino distinguere l’identità dei due lottatori, come nelle poesie che descrivono l’ambiguità e addirittura lo scambio di identità tra l’io del poeta e un Dio che non c’è: «L’importante è colpire alle spalle. Così si forma un cerchio dove l’inseguito insegue il suo inseguitore. Dove non si può più dire (figure concomitanti fra loro, e equidistanti) chi sia il perseguitato e chi il persecutore», e ancora: «L’ho seguito. L’ho visto. Non era lui. Ero io. L’ho lasciato andare. Incerto, ha preso il viottolo erboso. Con un balzo è sparito (ero io, non lui) nel fitto degli alberi, bui». Alla fine della lotta durata tutta una vita il destino dell’io e di Dio è comune: «me ne vado dove, da tempo, già se n’è andato Dio», anche se rimane incerta l’identità di entrambi: «Quel povero vecchino… Sobbalzai…Ero io?… Era Dio?… Solo nel buio Sottopassaggio, straziava il suo magro violino… Per chiedere la carità? (D’un soldo? Di che altro?… Chissà. Forse soltanto di un grano di pietà?)».

Nel suggerire piste di approfondimento teologico, Marcello Neri afferma che «tutta l’a-teologia poetica di Caproni […] è una sorta di chiamata in correo che viene rivolta al Dio del congedo e dell’evanescenza. Così facendo si mantiene la mancanza in quanto tale, impedendo che essa si tramuti in assenza togliendo così a Dio anche quest’ultima via di fuga e di auto-legittimazione; ma si grava anche l’umano del compito improbo di tenere il Dio mancante nella sua mancanza […] è come se il logos poetico si facesse carico di questo trattenimento di Dio proprio nella sua mancanza, in una sorta di dissolvenza che non si chiude mai […] così che quel trattenimento necessario diventa il logos della sua esistenza in mancanza». Così facendo – sempre secondo Neri – Caproni «indica la possibilità di uno stare faccia a faccia con il divino proprio nel modo del suo assentarsi – e, quindi, interroga la teologia sulla possibilità di un pensiero di Dio, e di una relazione con lui, che non rientri nel canone classico della sua esistenza. […] questa presenza di mancanza [di Dio…] chiede agli asserti teologici e filosofici una riformulazione della loro stessa ontologia di fondo».

Elman Salmann (altro teologo lettore di Caproni) invita la teologia classica a prendere atto che il suo soggetto e il suo oggetto sono scomparsi, non toccano più nessuno […mentre sarebbe invece richiesta] la «“fenomenologia impossibile” di una vita senza tutto, senza un punto di riferimento sicuro, “senza” Dio». Concluderei con una metafora ispirata all’immaginario della poesia Congedo del viaggiatore cerimonioso: nel caso di Caproni è come se la poesia – pur restando pienamente tale e al livello più alto – invitasse la teologia a salire sul treno e sedersi accanto a lei, per attraversare insieme, senza distogliere lo sguardo, i paesaggi della contemporaneità resi desolati dalla mancanza di Dio. Sarà compito della teologia mostrare, al momento del congedo, se avrà imparato dalla propria compagna di viaggio – la poesia di Caproni – a parlare del Dio mancante in un modo più vero e profondo.

Riferimenti:

Giorgio Caproni, L’opera in versi, Edizione critica a cura di Luca Zuliani, Mondadori, Milano 1998.

In questa edizione, i testi sopra citati sono rispettivamente i seguenti:
Senza titolo II (p. 723 e p.1673), Inserto (pp. 419-421 e p. 1587), Meteorologia (p. 714 e p. 1672), I coltelli (p. 313 e p. 1549), Preghiera d’esortazione o d’incoraggiamento (p. 365 e p. 1564), Lo stravolto (p. 326 e p. 1552), Telemessa (p. 405 e p. 1583), Pronta replica, o ripetizione (e conferma) (p. 676 e p. 1659), Pensiero pio (p. 368 e p. 1565), Senza Titolo I (p. 722 e p. 1673), Benevola congettura (p. 409 e p. 1584), Deus Absconditus (p. 331 e p. 1552), Postilla (p. 332 e p. 1553), Il Pastore (p. 330 e p. 1552), Il pastore infido (p. 715 e p. 1672), Monito dello stesso (p. 716 e p. 1672), Finita l’opera (p. 292 e p. 1543), Meandro (p. 683 e p. 1660), «Enfasi a parte, lasci (p. 842 e p. 1759), Invocazione (p. 916 e p. 1778), La stessa in termini più prolissi di giaculatoria (p. 917 e p. 1778), Ribattuta (p. 400 e p. 1581), Preda (p. 408 e p. 1584), Geometria (p. 484 e p. 1603), Rinunzia (p. 603 e p. 1645), Sulla staffa (p. 471 e p. 1599), Incontro o riconoscimento (p. 819 e p. 1750), Congedo del viaggiatore cerimonioso (p. 243 e p. 1499).

Etty Hillesum, Diario. 1941– 1942. Edizione Integrale, Adelphi, Milano 2012, p. 713: «Una cosa però diventa sempre più evidente per me e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini».

Genesi, 32,23-33.

Marcello Neri, Esodi del divino. Caproni, Pasolini, Velasio, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 35-86.
Elmar Salmann, La rivelazione dell’ineffabile. Le conversioni della teologia negativa, in Presenza di Spirito. Il cristianesimo come stile di pensiero e di vita, Cittadella, Assisi 2011, pp. 151-194 (in particolare pp.180-182).

Alcuni scritti sulla poesia di Caproni (De Robertis, Pasolini, Raboni, Citati, Calvino, Bo, Beccaria, Pampaloni) si trovano in Giorgio Caproni, L’opera Poesie 1932-1986, Garzanti, Milano1989, pp. 785-818.
Una rassegna della fortuna critica della poesia di Caproni si trova in Giuseppe Leonelli, Giorgio Caproni. Storia d’una poesia tra musica e retorica, Garzanti, Milano 1997, pp. 130-142.
Luigi Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, Costa & Nolan, Genova, 1990.
Daniele Piccini, L’ultimo Caproni: la caccia, l’ónoma, Dio, in «Atelier» n. 11 (III) settembre 1998, pp. 20-25 (l’articolo è consultabile sul sito di andreatemporelli).
Andrea Masetti, Caproni poeta dell’esilio, UNI.NOVA, Parma 2004.
Andrea Saieva, La filosofia di Giorgio Agamben e la poesia di Giorgio Caproni: un’ipotesi di lettura, in «Pólemos» 1/2020 luglio, pp. 271-284 (l’articolo è consultabile sul sito della rivistapolemos).